«Carino», esclamò lei, avvicinandosi per aiutarlo. «È un colpo segreto, vero?»
Lui la fissò, imbronciato, poi sospirò rumorosamente e si allungò per recuperare la maschera. «Ho cercato di chiamarti», disse, mentre si incamminavano verso l’ingresso, «ma la linea era occupata.»
«Stavo parlando con Don.»
Lui non disse nulla.
Lei lo guardò, poi distolse lo sguardo e avvertì una stretta al cuore che non aveva niente a che vedere con il freddo pungente.
All’interno del piccolo tunnel, i tacchi di Jeff risuonavano.
«Trace?»
Si fermarono sulla pista. Le tribune erano già piene di gente e la banda era al suo posto, sulla sinistra, e ascoltava i consigli dell’ultimo minuto del direttore. Sul lato opposto videro alcuni componenti della squadra che entravano lentamente nella sede in cemento del club.
«C’è qualcosa in lui che non va», disse con calma.
Lui le prese la mano e la strinse, senza mollarla.
«Non so.» Si udì lo squillo di una tromba e il direttore della banda urlò un ordine. Lei alzò lo sguardo, poi diede un’occhiata rapida a Jeff. «Mi fa paura», ammise di fronte a lui e di fronte a se stessa. «Non so bene che cosa gli stia succedendo, ma mi fa paura.»
L’espressione del viso di lui era tale che lei provò l’impulso di baciarlo — preoccupazione, rabbia e frustrazione mescolate.
«Ascolta», rispose lui alla fine, «perché non ci vediamo dopo? Dopo la partita. Posso accompagnarti a casa, oppure da qualche altra parte, così potremmo…»
«Non posso», lo interruppe lei. «Devo vedermi con Don.»
«Oh, capisco.»
«Ha bisogno di parlare con qualcuno, e credo di essere…»
«Ma ti fa paura, Trace. Hai appena detto che ti fa paura.»
«Lo so. Ma è pur sempre un amico, non ti pare?»
Gli afferrò una mano e poi la lasciò andare, gli fece un cenno e rimase a guardarlo mentre si incamminava verso la sede del club con passo veloce. Povero Jeff, pensò, e aggrottò le sopracciglia per il modo nel quale quelle parole l’avevano turbata. Doveva essere dispiaciuta per Don, non per Jeff; era Don che aveva baciato il giorno prima. Ma ora voleva baciare Jeff, voleva abbracciarlo, o magari rimanere lì con lui e ascoltarlo mentre le raccontava qualcosa di divertente sulla partita alla quale era stato obbligato a partecipare da suo padre.
Jeff. Don.
E si chiese se forse non sarebbe stato meglio evitare di vedere Don. Almeno non da sola.
Non aveva mentito — le faceva davvero paura.
Squillò il telefono.
Don scese con calma le scale: se avesse corso e se fosse stata sua madre, non avrebbe saputo cosa dirle, tranne forse che desiderava tanto che tornasse a casa; l’avrebbe pregata di tornare.
Era il sergente Verona.
Don riappese senza rispondere alla benché minima domanda, poi prese la giacca dall’armadio.
Non poteva restare lì. Se fosse rimasto, sarebbero arrivati i poliziotti e gli avrebbero chiesto di Tar e dello Squartatore, e non lo avrebbero lasciato andare fino a quando non avessero finito. Lo avrebbero fissato come faceva Hedley, scrutando nella sua anima e capendo com’era fatto davvero, riuscendo a capire che cosa era diventato dall’esplosione di tutta quella faccenda. A loro non importava certo che i suoi genitori stessero per lasciarsi e che lui si sarebbe ritrovato solo.
Rimase in piedi sulla veranda e chiuse la porta; lasciò la luce accesa nel caso in cui sua madre ne avesse avuto bisogno.
Alla fine del vialetto gettò un’occhiata verso il parco, pensando che forse avrebbe fatto meglio ad andare laggiù per calmarsi un po’ prima di presentarsi a scuola. Le mani gli tremavano e non riusciva a respirare senza affanno; per quanto continuasse ad asciugarsi il viso, era completamente sudato.
Forse il suo amico sarebbe tornato e gli avrebbe permesso di toccarlo di nuovo.
Si fermò una macchina e una donna che non conosceva si sporse dal finestrino. «Sei Donald Boyd?» chiese ridacchiando e girandosi verso qualcuno seduto al suo fianco. «Mi sento un po’ stupida, non credi anche tu? Santo cielo, mi sento proprio una stupida.» E ancora a Don: «Dunque. Sei tu il ragazzo che ho visto alla televisione, quello che ha ucciso quel maniaco?»
Lui annuì senza una parola.
«Lo sapevo», disse lei con un movimento del capo. «Te l’avevo detto che era lui», esclamò rivolgendosi al suo compagno. «Quando l’ho visto ho capito subito che era lui.»
Si allontanò con un te-l’avevo-detto-io, facendo quasi uscire di strada una macchina che cercava di superarla. Qualcuno suonò il claxon con rabbia, poi volarono delle parolacce; dalla seconda macchina qualcuno gli urlò di sbrigarsi, o avrebbe perso il calcio d’inizio, o forse era troppo grande per questo genere di cose? Lasciatemi in pace, disse con uno sguardo che sapeva non avrebbero nemmeno visto, lasciatemi in pace, dannazione.
Si fermò davanti alla casa di Chris e con gli occhi ripercorse il vialetto dove lei aveva fatto salire suo padre, con la mente rivide la direzione che avevano preso, e anche la loro posizione: così lontani da sembrare estranei. Gli prudeva il palmo della mano che aveva toccato i suoi seni, lo sfregò con forza contro la giacca fino a quando iniziò a bruciare.
Il cane di Delfield si mise ad abbaiare.
E piantala, pensò.
Nel petto avvertiva una tensione che schiacciava i polmoni; la colonna vertebrale sembrava un bastone che si rifiutava di piegarsi; le braccia erano piene di crampi e le mani strette a pugno.
Si udì il suono di una sirena della polizia; lasciatemi in pace; una banda di ragazzini corse lungo la via della scuola, prendendo in giro le macchine che circolavano e urlando dietro ai passanti dall’altra parte della strada; qualcuno fece esplodere una fila di petardi; lasciatemi in pace; si udì uno stridore di freni; lasciatemi in pace; il corpo di Tar scomposto in mezzo alla strada, più sangue che carne, il sangue che scorreva lungo il marciapiede.
Gli faceva male la testa.
Tre autobus della scuola passarono a tutta velocità, facendolo girare: i sostenitori della Nord lo punzecchiarono dai finestrini aperti, suonando trombette e claxon e gettando una lattina di birra sul marciapiede.
Cristo, lasciatemi stare.
Dall’autobus qualcuno lanciò una lattina di birra che andò a finire sui suoi piedi, rovesciandosi per metà sull’orlo dei pantaloni. «Cristo!» urlò. «Cristo, lasciatemi in pace!»
Pochi passi più avanti, udì tutte le grida riversarsi nello stadio e iniziò a correre, dicendo: «Io non volevo, io non volevo», fino a quando arrivò al cancello d’ingresso e le urla si fecero ancora più forti.
Don avrebbe anche scavalcato il cancelletto girevole, ansioso com’era di entrare per vedere che cosa stava combinando lo stallone agli spettatori e alla squadra. Ma c’era un poliziotto che osservava con sguardo cupo gli ultimi arrivati; Don cercò il biglietto nella tasca della camicia, lo porse a una donna dalla faccia rossa che se ne stava nell’angolino che fungeva da biglietteria durante le partite, poi spinse il braccio di metallo fino a quando udì lo scatto.
Entrò e guardò le gradinate. Facce con la bocca spalancata, mani che gesticolavano nell’aria, voci che strillavano su entrambi i lati del campo. Vide le luci scintillanti che trasformavano l’erba rendendola ancora più verde e le lucide divise che si inseguivano attraverso il campo dopo il calcio d’inizio.
Non era successo nulla, pensò con sollievo, appoggiandosi contro il muro di mattoni; non è successo nulla, non ho fatto niente.
Si lasciò cadere per terra, rimanendo seduto per una decina di minuti, non vedendo altro che gambe in movimento e non udendo altro che urla continue che si fondevano in un boato interminabile, senza fine; emise un lamento e si tappò le orecchie, chiedendosi perché mai la gente si eccitasse così tanto per una stupida e rumorosa partita di football da liceali. Non sapevano che Tar era morto? Non sapevano che il ragazzo che giocava con Brian seguendo un certo schema era un volgare sostituto e non il titolare?
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