Charles Grant - La carezza della paura

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Quale sarà la prossima vittima dello squartatore, il mostro del New Jersey? Il timido Donald Boyd, capace di parlare solo con creature immaginarie di sua invenzione, assalito dal mostro, viene salvato da uno stallone nero che da allora lo difenderà sempre, apparendo dal nulla. Per Donald è la lotta contro una nuova inspiegabile ossessione.

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Charles L. Grant

La carezza della paura

A Kathryn.

Perché.

1

Una fredda serata di fine settembre, mercoledì, tempo sereno. La luna era chiazzata da ombre grigiastre e le stelle erano troppo brillanti per essere offuscate dalle luci sottostanti; di tanto in tanto soffiava il freddo alito di un debole venticello che trasportava l’eco dei suoni notturni attraverso gli alberi, spingeva le foglie morte nei tombini, faceva rotolare le ghiande sui cornicioni e schiaffeggiava le mani e i visi della gente in una rigida promessa d’inverno.

Una fredda serata di fine settembre, mercoledì. Buio.

…e allora il ragazzo, che non era così cattivo come lo credeva la gente a causa di tutto ciò che aveva fatto, alzò lo sguardo verso l’albero…

Dal fiume Hudson fino al centro del New Jersey, la terra si alzava dolcemente verso i Monti Appalachi. Le foreste erano sparite, così come la maggior parte dei pascoli, e avevano lasciato il posto a villaggi che si erano trasformati velocemente in paesi e cittadine, incastrati l’uno con l’altro, come un puzzle gigantesco. La cittadina di Ashford, non molto estesa, si trovava sul primo degli altipiani, affacciata verso sud, con le colline alle spalle. Dall’alto sarebbe stato impossibile distinguerla dalle città circostanti — era tutta una grande massa di luci sull’orlo di un rasoio scuro.

…e vide il corvo che sedeva sul ramo più alto dell’albero più grande del mondo. Un corvo gigante. Il più grande corvo che avesse mai visto in vita sua. E il ragazzo si rese conto, immediatamente, che quel corvo sarebbe stato l’unico amico che possedeva al mondo. Poi si mise a parlare con il corvo e disse…

Il parco si trovava proprio nel centro della città, occupava cinque isolati in lunghezza e tre in larghezza ed era circondato da un muro in pietra alto due metri e incappucciato da una colata di cemento, rovinata nei punti dove la gente, di tanto in tanto, andava a sedersi per osservare il traffico sottostante. Nella parte nord c’era un piccolo campo da gioco dov’era stato eretto un palchetto per la banda, illuminato da una mezza dozzina di riflettori, montati sui lati; e sul prato antistante erano state sparse sedie pieghevoli, sedie da campeggio, plaid di lana, giacche autunnali, per evitare che la polvere del campo da baseball e l’umidità dell’erba che stava tendendo ormai al marrone dessero fastidio al pubblico.

Sull’asta posta sul palchetto della banda sventolava lo stendardo dipinto dagli studenti, ormai illeggibile alla luce del tramonto, ma tutti sapevano che doveva pubblicizzare i festeggiamenti per la festa di Ashford che sarebbero iniziati di lì a un mese. Il concerto doveva essere un preludio degli avvenimenti in programma per la celebrazione del compleanno della città — un secolo e mezzo di vita.

I membri della banda del liceo erano seduti sulle loro sedie, indossavano le loro uniformi rosse bordate di nero e oro e suonavano come se stessero facendo l’audizione per condurre la parata del Rose Bowl. Si cimentarono in un Bolero come se ne capissero il significato, suonarono una marcia di Sousa come se lo conoscessero di persona e, quando attaccarono le prime note dell’ Ouverture 1812, vennero lanciati fuochi d’artificio, razzi, ruote infuocate e candelotti romani che accesero l’immaginazione degli spettatori.

Oltre il prato, dietro i cespugli poco illuminati, si sentivano delle risatine, qualche movimento e delle lattine che venivano stappate.

…credi che andrà tutto bene?

I genitori, i parenti, il consiglio di istituto e il sindaco applaudivano come se non avessero mai sentito niente di più grande in vita loro.

Il capobanda si distrasse e la banda prese una stecca. Non erano previsti i fischi, per cui l’applauso continuò con la stessa intensità di prima.

…e il corvo rispose, andrà tutto bene se riuscirai a capire chi sono i tuoi veri amici.

In mezzo al parco c’era un laghetto ovale, largo dieci metri, con uno scivolo di cemento che andava a finire in acqua. Non era molto profondo; un bambino di due anni poteva attraversarlo senza correre alcun rischio, ma era sufficiente per riflettere il sole, il cielo e le piante circostanti, tanto da dare l’impressione che là sotto fossero stati catturati gli abissi oceanici. Intorno, c’erano panchine di legno inchiodate al cemento. Accanto a ognuna di esse c’erano delle colonnine con globi di luce bianca, ormai verdi per il passare del tempo e degli anni. La luce che emanavano era soffusa, cadeva mollemente sull’acqua fredda, sulle panchine e sugli undici bambini silenziosi che in quel momento stavano seduti ad ascoltare.

Non stavano sentendo la musica, anche se arrivava da oltre le piante; ignorarono l’applauso secco che arrivava da lontano; erano intenti ad ascoltare il ragazzo in tuta nera, accucciato sul cemento, che dava le spalle al laghetto e teneva le mani incrociate sulle ginocchia.

Aveva la voce bassa, rauca, e teneva gli occhi socchiusi nel tentativo di coinvolgere maggiormente i bambini nella sua storia.

«E allora il ragazzo disse, come faccio a sapere quali sono i miei veri amici? Mi odiano tutti, pensano che io sia un mostro terribile. E il corvo si mise a ridere come un matto e rispose, li riconoscerai quando li incontrerai. Il ragazzo aveva un po’ paura. Sono un mostro, domandò dopo qualche minuto, e il corvo non rispose. Sei un mio amico, gli chiese allora il ragazzo. Ma certo, disse il corvo. Anzi, sono il miglior amico che tu possa mai avere al mondo.»

I bambini cominciarono a stirarsi mentre l’applauso scemava e avvertirono i primi passi sul vialetto centrale. Il ragazzo tremò. Pensava di aver programmato la storia tanto bene da finirla contemporaneamente al concerto, ma si era lasciato trasportare dal racconto, riempiendolo di aneddoti per evitare che i bambini si annoiassero.

Ma ormai aveva perso la loro attenzione. Lo si vedeva dagli occhi, dallo scalpiccio sulle panchine, dalle loro teste che si muovevano leggermente, troppo gentili per ignorarlo completamente, anche se ormai i loro sguardi erano attirati dal vialetto, intenti a vedere chi stava avvicinandosi.

«I corvi non parlano», dichiarò improvvisamente un bambino incappucciato, sfoggiando un sorriso da «io-so-tutto».

«Invece sì», rispose una bambina in giacca a vento.

«Ah sì? Ne hai mai sentito uno, bella?»

«Scommetto che non ne hai mai nemmeno visto uno, Cheryl», disse un altro bambino. «Scommetto che non sai nemmeno come sono fatti.»

La ragazzina si voltò a braccia spalancate. «Donald, io so come sono fatti i corvi.»

Ormai si erano distratti e stavano schierandosi da una parte o dall’altra per il nuovo gioco. I sostenitori del corvo erano in minoranza, ma ce la mettevano tutta aiutandosi con gesti indignati e proteste acute, mentre l’opposizione ironica — composta per lo più dai maschi più grandi — annuiva con condiscendenza, rideva e si prendeva a gomitate.

«Tutti sanno come sono fatti i corvi», disse Don, con un tono così calmo e duro da polarizzare l’attenzione generale. «E tutti sanno che aspetto può avere il corvo più grande del mondo, giusto?»

Qualche testa si mise ad annuire. Gli altri rimasero poco convinti.

Don sorrise nel modo più cattivo possibile, si alzò in piedi e indicò l’albero più vicino, proprio alle loro spalle. La maggior parte si voltò a guardare; gli altri resistettero alla tentazione, avendo capito il trucchetto e non volendo dargli soddisfazione.

Finché la bambina si portò la mano alla bocca e rimase senza fiato.

«Proprio così», continuò, indicando. «Visto? Proprio là, oltre la luce? Guardate bene. Se guardate bene non lo mancherete. Si riescono a vedere le piume nere e scintillanti. E il suo becco, là, dietro quella foglia, è del colore dell’oro e sembra un pugnale, vero?»

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