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Charles Grant: La carezza della paura

Здесь есть возможность читать онлайн «Charles Grant: La carezza della paura» весь текст электронной книги совершенно бесплатно (целиком полную версию). В некоторых случаях присутствует краткое содержание. Город: Milano, год выпуска: 1988, ISBN: 88-200-0762-2, издательство: Sperling & Kupfer, категория: Ужасы и Мистика / на итальянском языке. Описание произведения, (предисловие) а так же отзывы посетителей доступны на портале. Библиотека «Либ Кат» — LibCat.ru создана для любителей полистать хорошую книжку и предлагает широкий выбор жанров:

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Charles Grant La carezza della paura

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Quale sarà la prossima vittima dello squartatore, il mostro del New Jersey? Il timido Donald Boyd, capace di parlare solo con creature immaginarie di sua invenzione, assalito dal mostro, viene salvato da uno stallone nero che da allora lo difenderà sempre, apparendo dal nulla. Per Donald è la lotta contro una nuova inspiegabile ossessione.

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E, tra un impegno e l’altro, quando le capitava di pensarci, doveva badare al piccolo Donny.

Maledizione, pensò, strusciando le ruote contro il marciapiede, mentre svoltava l’angolo; il piccolo Donny. Non era colpa sua se Sam era morto, no? Sam, il cui vero nome era stato Lawrence, ma che era sempre stato chiamato Sam perché la mamma aveva sostenuto la sua incredibile rassomiglianza con lo zio d’America; Sam, di cinque anni più giovane di Don, era morto lacerato da una peritonite acuta mentre la famiglia era in vacanza in campeggio a Yellowstone. Quattro anni prima. In mezzo al deserto.

Sam, un nanerottolo che adorava stare ad ascoltare le sue storielle.

Non era stata colpa sua e, in effetti, nessuno lo aveva rimproverato per non aver riferito dei dolori di Sam, ma era l’unico figlio rimasto e probabilmente si stavano assicurando di non lasciarselo scappare prima del dovuto.

Svoltò un altro angolo, rallentò e restò a guardare la strada come se non l’avesse mai vista prima. Era una sensazione strana; chiuse gli occhi, li riaprì lentamente per cercare di rimettere tutto a fuoco.

Sempre più lentamente, mentre la bicicletta era sul punto di vacillare.

Assomigliava alla sua via — le case erano stile Depressione, della fine del secolo, fatte di legno, di mattoni e di pietre levigate dal tempo, con piccoli giardinetti davanti e vecchie querce sul marciapiede in terra battuta. La strada era completamente al buio, perché le foglie, ancora sui rami, offuscavano la luce dei lampioni stradali.

E, ai lati, c’erano parcheggiate numerose automobili.

Non c’era niente di particolare e avrebbe dovuto tirare dritto come il solito. Ma quella sera avvertiva qualcosa di diverso, qualcosa che non riusciva a capire, qualcosa che pensava di aver percepito. Sembrava tutto abbastanza familiare — Tar Boston abitava poco più in giù, in una casetta verde con persiane bianche, senza veranda — eppure la strada non gli sembrava la stessa di sempre.

Andava sempre più lentamente, come se avesse avuto qualcuno alle spalle che tirava una fune impigliata tra i raggi delle ruote.

Chiuse un occhio, poi lo riaprì e si aggrappò forte al manubrio.

Le macchine.

Erano le macchine.

Per quanto potessero essere tutte colorate, in quel momento erano tutte scure — brillavano al buio, aspettavano al buio. Le sfaccettature dei fanali scintillavano come occhi di ragno catturati dalla luce della luna e i tergicristalli erano immobilizzati dall’incedere della brina. Le carrozzerie riflettevano nero; i tetti riflettevano l’ombra degli alberi ormai morti. Sembravano gatti giganteschi della giungla trasformatisi chissà come, sempre più minacciosi.

Infine si fermò in mezzo alla via e rimase a osservarle, leccandosi nervosamente le labbra e immaginandosi che stessero aspettando proprio lui, per dirgli quello che doveva fare. Una scuderia di automobili. No — un esercito di automobili. In paziente attesa dell’ordine di ammazzare.

Tentò di formulare un sorriso con la bocca, mentre annuiva verso di loro e pronunciava il suo nome.

Da qualche parte, in fondo alla strada, poco più in là, un motore cominciò a rombare adagio.

Il metallo scricchiolava.

Un’auto che andava avanti e indietro per parcheggiare.

Si morse il labbro superiore; si stava spaventando.

Vide il guizzo di un faro.

I pneumatici stridevano come se fossero completamente congelati.

Gesù, pensò, e si passò il palmo della mano sulla bocca.

Il motore si spense.

Il metallo smise di scricchiolare.

Si sentiva soltanto il sottofondo attutito del traffico serale proveniente dal centro.

Si spinse un po’ più avanti e si costrinse con difficoltà a svoltare l’angolo, rischiando di schiantarsi sulla strada; poi si diresse sul vialone, verso casa. Gli passò davanti un autobus, sbuffandogli in faccia una nuvola di scarico. Tossì e rallentò di nuovo e si mise a osservare le luci color ambra che svanivano all’orizzonte della strada, dove il buio veniva malamente illuminato dalle luci della cittadina vicina.

Gesù, pensò di nuovo, e rabbrividì. Sapeva che si era trattato solamente del gas di scarico di un motore, sbuffato dalla carcassa metallica di qualcuno che stava riscaldando il motore in un garage. Tutto lì. Eppure qualcos’altro gli aveva attraversato la mente; chissà come sarebbe stato vivere in un posto dove una città non cominciava dove finiva l’altra, chissà come sarebbe stato vivere a New York.

Tremendo, pensò.

Tutto quello spazio aperto, tutti quegli alberi — tremendo e, in ogni caso, Ashford non era brutta come città.

Svoltò nel suo quartiere, vide la station wagon sul vialetto d’ingresso e si infilò in casa. Dopo essersi ripulito le mani sui jeans, portò la bicicletta in garage. Non c’era abbastanza posto per la macchina — troppi attrezzi per il giardino, scatoloni e una miriade di altri oggetti e oggettini ammucchiati là dentro, perché nessuno aveva voglia di pensare a un posto migliore dove sistemarli. Era come un solaio, ma sprofondato al livello della terra.

Esitò un attimo, si ripulì le mani sui jeans mentre un brivido di tensione gli attraversava la schiena. Poi aprì la porta ed entrò in cucina.

«Pensavo», gli disse sua madre, «che ti avessero rapito, santo cielo.»

2

La luce era molto intensa: socchiuse gli occhi per mettere a fuoco.

Lei era in piedi vicino al lavandino, con una gamba piegata, e risciacquava una tazza, mentre la caffettiera sui fornelli dietro di lei gorgogliava rumorosamente. Aveva i capelli lunghi e scuri che le arrivavano a metà schiena e quando li portava raccolti con un nastro lucido, come in quel momento, aveva un’aria tanto giovane che avrebbero potuto scambiarla per una delle sue alunne. E questo soprattutto quando sorrideva, spalancando i suoi grandi occhi. Cosa che fece quando lui si avvicinò e la baciò sulla guancia, sfilandosi la giacca e appendendola a una sedia.

Aveva intenzione di raccontarle delle macchine, ma cambiò idea quando lei distolse lo sguardo, ritornando ai suoi piatti.

«Ero fuori in bicicletta.»

«Fai bene», disse, osservando con attenzione una macchia che non voleva venire via dalla tazza. «L’aria fresca ti fa bene. Elimina le cellule morte del sangue, ma immagino che tu lo abbia già letto nei libri di biologia o roba simile.»

«Esatto.»

Un’occhiata nel frigorifero quasi pieno prima di tirare fuori una lattina.

«Tesoro, quella porcheria gasata ti fa male», disse, appoggiando la tazza e risciacquandone un’altra. Nel lavandino, immersi in acqua calda saponata, c’erano un mucchio di piatti sporchi. Forse il giorno seguente avrebbe trovato il tempo per lavarli tutti. «Non fa bene bere quella roba prima di andare a letto. Ti rimane sullo stomaco, ti fa fare un sacco di ruttini e ti fa venire anche gli incubi.»

«Ma non sto andando a letto.»

Lei lo guardò increspando le labbra. «Donald, adesso sono…» controllò l’orologio a forma di girasole che stava sopra i fornelli «…le dieci e quarantasette. In punto. Domani devi andare a scuola. E anch’io ho scuola. E sono stanca.»

La caffettiera sibilò e venne tolta subito dal fuoco.

«Mamma, sai bene che non era necessario che mi aspettassi, se eri stanca.»

Asciugò le tazze e versò il caffè; tutto in perfetto orario. «E non l’ho fatto. È da quando siamo entrati che tuo padre è al telefono. A proposito», aggiunse, dirigendosi verso il salotto, «stasera ho ascoltato Chris che suonava il piano. Sai una cosa? Mi sembra piuttosto carina. Hai intenzione di fartela amica?»

«Non lo so», rispose lui, continuando a camminare. «Forse».

«Che cosa?»

«Forse!» le urlò dietro e poi, sottovoce: «Chissà, un giorno all’inferno, forse.»

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