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Charles Grant: La carezza della paura

Здесь есть возможность читать онлайн «Charles Grant: La carezza della paura» весь текст электронной книги совершенно бесплатно (целиком полную версию). В некоторых случаях присутствует краткое содержание. Город: Milano, год выпуска: 1988, ISBN: 88-200-0762-2, издательство: Sperling & Kupfer, категория: Ужасы и Мистика / на итальянском языке. Описание произведения, (предисловие) а так же отзывы посетителей доступны на портале. Библиотека «Либ Кат» — LibCat.ru создана для любителей полистать хорошую книжку и предлагает широкий выбор жанров:

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Charles Grant La carezza della paura

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Quale sarà la prossima vittima dello squartatore, il mostro del New Jersey? Il timido Donald Boyd, capace di parlare solo con creature immaginarie di sua invenzione, assalito dal mostro, viene salvato da uno stallone nero che da allora lo difenderà sempre, apparendo dal nulla. Per Donald è la lotta contro una nuova inspiegabile ossessione.

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Però non era andata così. Per lui erano stati fatti dei piani, che, a quel tempo, ancora non conosceva.

Era passato l’inverno e aveva cambiato diversi lavori; aveva avuto continuamente dei guai per le violente discussioni con datori di lavoro senza palle, con il culo molle e più giovani di lui di almeno vent’anni.

I soldi erano pochi, gli amici avevano sospeso i prestiti e la polizia gli stava sempre alle costole, a mano a mano che i suoi vestiti sbiadivano sempre di più.

La luna aveva altri programmi.

Un altro inverno e poi un altro ancora, fortunatamente mite. Ma il quarto l’aveva trascorso in un rifugio sovrappopolato per uomini senza tetto di New York. L’umiliazione aveva raggiunto il limite quando era stato intervistato da un reporter televisivo liberale strappalacrime al quale aveva cercato di raccontare il servizio che aveva prestato alla nazione, quando invece il reporter voleva solo sapere se era riuscito a passare una notte di sonno tranquillo in quella stanza piena di vecchi.

Vecchi.

Vecchi.

Cristo, era diventato vecchio e non se n’era nemmeno accorto.

Era stato allora che la luna era tornata da lui. L’inverno precedente. Era tornata a salvarlo e a fargli vedere quello che sanno fare i lupi mannari.

Stava vagabondando per l’Ottava strada, passando da un locale a luci rosse all’altro nella speranza di trovare qualcosa di gratuito, essendo completamente al verde, quando un ragazzo, vestito con un paio di jeans attillati e una giacca di pelle, gli aveva toccato il culo mentre passava. Tanker era rimasto di sasso, si era voltato lentamente e aveva scorto lo sguardo negli occhi del ragazzo. Vuoto, come se fosse morto.

Era stato sul punto di vomitare, poi aveva alzato gli occhi e aveva visto la luna, aveva dato un’occhiata al giovane e si era permesso di sorridere. Aveva ancora una buona dentatura e la teneva in esercizio con la masticazione, e non era difficile, abitando in quelle stanze d’albergo che puzzavano di piscio stantio, fare a brandelli il figlio di puttana.

La luna aveva fatto l’occhiolino.

E Tanker era scoppiato a ridere. Aveva lasciato perdere il moccioso e se n’era andato.

Non era stato per il sesso, ma per l’età.

«Moccioso», aveva mormorato. Ecco che cos’erano, mocciosi che si affacciavano al mondo come se sapessero esattamente che cosa fare, lasciandosi alle spalle uomini come lui a marcire nelle fogne, sui tombini, sugli scalini delle chiese che di notte chiudevano il portone.

Mocciosi che non conoscevano il potere di Tanker Falwick, il potere dell’uomo che aveva visto di persona la nascita e la caduta della prima cavalleria armata, che aveva schiacciato sotto i piedi nazisti e fascisti, dell’uomo che non riusciva a capire come mai un carro armato dovesse essere dotato di tutti quei dannatissimi computer, quando l’unico scopo del pilota era di mirare al fottuto bersaglio e abbattere il nemico. Era semplicissimo e lui non aveva bisogno di uno schermo televisivo per poppanti per riuscirci.

Dicevano che non si sarebbe adattato all’esercito moderno; dicevano che era instabile perché aveva combattuto in tutte le battaglie, in tutte le trincee; dicevano che avrebbe fatto meglio ad andarsene in pensione o che altrimenti l’avrebbero richiamato e l’avrebbero abbandonato a se stesso.

Dicevano.

Ma non avevano parlato della luna e di come lui la sentiva sul volto, di come gli scorreva il sangue quando incontrava ragazzini a cui poter squartare la gola e togliere le budella, per sorseggiarne il sangue e mangiucchiarne la carne, prima di lasciare la sua firma finale.

Non avevano mai parlato di questo.

Si alzò, costeggiò il laghetto e si diresse verso il campo di calcio e lo spiazzo da cui aveva assistito al concerto. Avrebbe dormito lì, quella sera, e si sarebbe augurato maggiore fortuna per l’indomani, qualcosa di più di un semplice moccioso, per tenere calma la luna. Ne aveva assolutamente bisogno. Aveva bisogno di riempirsi lo stomaco con qualcosa da lasciarsi alle spalle, per ricordare a quei poppanti che Tanker Falwick era ancora latitante. Non poteva più muoversi a New York, sia nello stato che nella città, perché avevano scoperto il vicolo nel quale abitava quando quel bastardo di negro dai capelli biondi l’aveva visto rincasare una mattina grondante di sangue fresco. Ma non era stato un problema, perché c’era un’intera nazione che aspettava di imparare.

La prima fermata era stata quella cittadina, di cui non ricordava il nome.

Non aveva importanza. Sapeva soltanto che c’erano molti ragazzi che credevano di poter vivere per sempre.

Nonostante fosse una serata feriale e ai suoi genitori non piacesse vederlo rincasare tardi, quando la mattina doveva alzarsi presto, Don decise di non tornare a casa subito. Si mise invece a pedalare per il vialone, per l’isola pedonale del centro e poi si diresse a est, dove raggiunse l’imbocco della sua via. Svoltò immediatamente e proseguì diritto, senza guardare a sinistra, avendo già notato che la station wagon non era ancora parcheggiata nel vialetto d’ingresso, per cui i suoi ancora non erano rincasati. Meglio così, perché era sempre più difficile sopportare il loro comportamento furtivo, come se lui non si rendesse conto di quello che stava succedendo.

Non sapeva dove andare, sapeva solo che non voleva ancora rientrare. Gli piacevano le serate autunnali, il modo in cui l’aria si ghiaccia leggermente sul laghetto, frizzante e pulita e pronta a frantumarsi al più piccolo tocco; gli piacevano gli alberi, tanto scuri da sembrare invisibili, il modo in cui le foglie andavano a raggrupparsi in mucchi dorati e rossastri sui tombini, rendendo l’aria aspra e affumicata; gli piacevano i rumori delle serate autunnali, acuti ed echeggianti, portati da lontano. In qualche modo, erano confortanti quelle poche settimane che precedevano novembre e voleva godersele il più possibile. Prima di tornare, prima di rincasare.

Aggrottò le sopracciglia e diede un colpo al manubrio, scostando bruscamente dalla fronte il ciuffo di capelli. Non era giusto. In effetti, la sua non era stata una vita dura, no davvero, non nel senso comune del termine. La casa era abbastanza grande da permettere a tutti di avere il proprio angolo di intimità e sufficientemente vecchia per non assomigliare alle altre del quartiere; la sua stanza era spaziosa e non aveva mai dovuto mendicare un pasto decente o un vestito decente; era abbastanza sicuro di riuscire ad andare al college l’autunno successivo se manteneva la media che aveva ormai raggiunto; niente di speciale, ma niente di cui vergognarsi.

Ma non aveva voglia di tornare a casa.

Non ancora.

In città c’erano due licei — Ashford Nord e Ashford Sud. Lui frequentava il secondo, il preside era suo padre e doveva lavorare come un matto per raggiungere la media che gli interessava perché era il figlio del capo e i favoritismi erano proibiti. Norman Boyd era in carica già da cinque anni, quindi da prima ancora che suo figlio cominciasse a frequentare. Don se l’era sempre cavata egregiamente senza bisogno che suo padre si incontrasse privatamente con gli insegnanti; o meglio, si era incontrato con loro soltanto una volta per dirgli di non assegnare al figlio buone votazioni soltanto perché era suo figlio e di non prendere però nemmeno provvedimenti disciplinari contro Don, se per caso ci fossero stati disaccordi tra il corpo docente.

Don doveva essere trattato come qualsiasi altro studente, né meglio né peggio.

Così era stato, ne era sicuro. In quel momento, poi, stavano tutti contro il capo, e lo sciopero sui salari e sugli orari programmato per la fine del mese sembrava sempre più inevitabile.

Suo padre non gli credeva.

E nemmeno sua madre, che insegnava alla Ashford Nord.

Lei, comunque, era troppo occupata. Doveva preparare le lezioni e gli esami, aveva la sua pittura che le assorbiva il poco tempo libero, e poi era impegnata con il comitato per la Festa di Ashford, che la teneva fuori casa la maggior parte delle serate della settimana.

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