Charles Grant - La carezza della paura

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La carezza della paura: краткое содержание, описание и аннотация

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Quale sarà la prossima vittima dello squartatore, il mostro del New Jersey? Il timido Donald Boyd, capace di parlare solo con creature immaginarie di sua invenzione, assalito dal mostro, viene salvato da uno stallone nero che da allora lo difenderà sempre, apparendo dal nulla. Per Donald è la lotta contro una nuova inspiegabile ossessione.

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Don sbatté la porta. Diede un calcio a un libro che quasi lo fece cadere, poi si precipitò su per le scale, inciampando un paio di volte, cadendo sul pianerottolo e tirandosi su fino in anticamera. Si appoggiò al muro e fissò la camera dei suoi genitori, poi la sua, quindi si girò per dare un’occhiata alla camera di Sam e si mise a singhiozzare.

«Don?» lo chiamò Norman dal fondo delle scale.

«Lasciami in pace!» urlò. «Lasciami in pace!»

«Volevo solo avvisarti che ci sono dei panini sul bancone, nel caso volessi mangiare qualcosa prima di andare alla partita.»

«Gesù Cristo», strillò, «vuoi lasciarmi in pace?»

Entrò nella sua stanza, afferrò la sedia della scrivania, la sollevò sopra le spalle mentre le lacrime rigavano il suo volto, poi la gettò contro il muro mentre le ginocchia si facevano rigide.

«Lasciatemi in pace!» disse a voce alta.

Con un braccio spazzò via i libri e le penne dalla scrivania.

«Lasciatemi in pace», mormorò.

Afferrò il falco impagliato da una mensola e cercò di staccargli la testa, poi lo scagliò con violenza contro la finestra, sobbalzando al rumore prodotto dal vetro che scricchiolava; l’uccello rimbalzò indietro, rotolando lentamente sul pavimento.

«Lasciatemi in pace. Voglio soltanto … che mi lasciate in pace.»

Passi nell’ingresso che non vacillavano né indugiavano. L’acqua della doccia. Lo sciacquone del water. Qualcosa di vetro che si frantumava sul pavimento del bagno.

Dieci minuti più tardi, la porta d’ingresso sbatté e Don balzò dal letto per correre nella camera dei suoi genitori: scostò le tende e guardò giù in strada. Indossando un paio di pantaloni, un pullover e una giacca sportiva, Norman stava svoltando l’angolo. Non si guardò indietro, e nemmeno alzò gli occhi; si fermò con le mani in tasca mentre Chris faceva marcia indietro con la sua decappottabile rossa per uscire dal garage. Si scambiarono qualche parola. Norman scosse la testa, gentilmente. Un altro scambio di battute con Chris che sfoggiava il suo miglior sorriso. Quando lui alzò le spalle, lei gli fece un gesto con le braccia, poi afferrò i pon-pon dal sedile anteriore e li depositò su quello posteriore, sporgendosi in avanti per aprire la porta del passeggero. Un altro cenno e Norman alzò le spalle, poi passò dietro la macchina e scivolò accanto al posto di guida. Quando partirono, in direzione dello stadio, Chris aveva entrambe le mani appoggiate sul volante e suo padre teneva lo sguardo fisso verso destra. Don si allontanò dal davanzale e ritornò nella sua camera, prese il falco e lo appoggiò delicatamente sul letto.

«Mi dispiace», disse.

Da basso era buio. Dopo aver acceso le luci del salotto e il piccolo lampadario dell’ingresso, vide il foglio attaccato all’interno della porta d’ingresso.

Don, non dimenticarti di mangiare qualcosa prima di uscire. Io ho bevuto troppo. Stupido e ubriaco. Se ti ho fatto del male, scusami. Non dimenticarti le chiavi.

Allungò le dita per toccare il foglio, poi ritrasse la mano, quindi afferrò il messaggio e lo strappò in due, e poi ancora in due, buttando i pezzi per terra.

«Non basta chiedere scusa, papà», disse, entrando in salotto.

Una fila di macchine passò davanti alla casa, suonando i clacson e con la musica ad alto volume.

Guardò il soffitto. «Perché?» chiese, con la gola in fiamme. «Che cosa ho fatto di male?»

In cucina si versò un grosso bicchiere di latte, poi prese i panini che qualcuno aveva preparato per lui. Dopo essere rimasto in piedi di fianco al tavolo, per assicurarsi di non avere dimenticato nulla, si sedette e iniziò a mangiare, fissando la sua immagine trasparente riflessa sul retro della porta, come se si aspettasse di vedere entrare sua madre; sua madre che entrava scuotendo i capelli, con un sorriso sulle labbra, gli porgeva la guancia per il solito bacio, poi andava verso il lavandino, lo riempiva di acqua calda e ci immergeva i piatti, controllandoli poi uno per uno, come se stesse compiendo il lavoro di un artista.

Quand’ebbe finito, sciacquò il bicchiere, pulì il piatto e spense la luce. Vicino al tavolino d’ingresso si fermò per osservare le sue dita che giocherellavano con la cornetta del telefono. Fece il numero di Tracey trattenendo il fiato.

Lei rispose e lui si sedette per terra, incapace di parlare, fino a quando lei non lo assalì con una serie di parole in spagnolo che lo fecero sobbalzare a tal punto da fargli dire: «Cosa?»

«Don, sei tu? Accidenti, pensavo si trattasse di una telefonata oscena.»

«Sì, sono io. Santo cielo, cosa voleva dire tutta quella roba?»

Lei ridacchiò. «È meglio che tu non lo sappia, però suonava bene, vero?»

«Mi hai spaventato.»

«Era quello che volevo. È una delle brillanti idee di mio padre.» Sua madre strillò con voce acuta con sua sorella, e suo padre urlò con tutti quanti. «Cosa c’è? Oh, santo cielo, è successo qualcos’altro?»

Lui annuì, poi rispose: «Sì.»

«Dovrei fare il prete.»

«Eh?»

«Il prete. Negli ultimi giorni c’è un sacco di gente che viene a piangere sulla mia spalla. Sto diventando piuttosto brava. Forse dovrei farmi pagare, che ne dici?»

Lui rimase con lo sguardo fisso sulla cornetta.

«Don», disse in tono solenne, «era soltanto uno scherzo.»

«Oh. Mi dispiace.»

«Non ti preoccupare. Ehi, ascolta, sono un po’ in ritardo. Se arrivo tardi, mi fanno riconsegnare il flauto e mi strappano le mostrine.» Fece una pausa. «Stavo di nuovo scherzando.»

«Sì, lo so.»

Suo padre urlò qualcosa in spagnolo e sua sorella gli rispose strillando; un secondo più tardi sentì l’inequivocabile rumore di uno schiaffo, seguito dal pianto di qualcuno.

«Don…»

«Ho sentito.»

Lei bisbigliò: «Mi dispiace. Davvero, stavo solo scherzando. Ci vediamo più tardi?»

Prima che potesse rispondere, lei aveva già riappeso. Don strinse il filo del telefono fra le mani e lo tirò fino a tenderlo. Adesso, pensò; io ho bisogno di te adesso, Tracey, dannazione. Rimase seduto sul divano, cercando di indovinare che ora fosse; ogni tanto andava in cucina per verificare la propria precisione con l’orologio. Ma si sbagliava. Ogni volta. E ogni volta che si alzava e usciva dalla stanza, sapeva che sua madre non sarebbe tornata prima che lui fosse uscito. Se mai fosse uscito. Non era poi tanto sicuro di andare. Tutta quella gente, tutte quelle facce, tutto quel rumore che gli impediva di riflettere.

Andò di sopra, nella stanza di Sam.

La macchina da cucire di sua madre era per terrà, vicino al lettino di Sam con le lenzuola di Winnie-the-Pooh; nell’angolo opposto era stato sistemato un tavolino dove sua madre ammonticchiava tutti i suoi attrezzi quando non li usava; la tappezzeria era piena di polvere, file di cowboys e indiani e cactus e diligenze. La tapparella era abbassata. Sul materasso non c’era il cuscino. Si guardò attorno, cercando di ricordarsi che faccia avesse suo fratello, che cosa avesse detto o fatto suo fratello per farsi ricordare così bene da sua madre.

«Sam», disse, «sei un bastardo, lo sai? Sei un dannatissimo bastardo.»

Tracey corse giù per la collina, verso l’ingresso dello stadio, sentendosi un po’ stupida nella sua uniforme, mentre osservava tutti gli altri ragazzi vestiti più comodamente e pronti a divertirsi: loro non sarebbero dovuti tornare a casa dopo la partita per cambiarsi. Oltre tutto, non le importava nulla della partita, della musica o della figura che avrebbe fatto sul campo — era preoccupata per Donald, per quello che gli stava capitando; chissà perché, quando aveva parlato con lui poco prima, il suono della sua voce non l’aveva fatta tremare come faceva di solito.

Qualcuno la chiamò per nome e lei si girò in tempo per vedere Jeff che correva verso di lei. Sorrise e si fermò ad aspettarlo, scoppiando a ridere quando lui scivolò lungo il marciapiede finendo in mezzo all’erba.

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