Charles Grant - La carezza della paura

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La carezza della paura: краткое содержание, описание и аннотация

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Quale sarà la prossima vittima dello squartatore, il mostro del New Jersey? Il timido Donald Boyd, capace di parlare solo con creature immaginarie di sua invenzione, assalito dal mostro, viene salvato da uno stallone nero che da allora lo difenderà sempre, apparendo dal nulla. Per Donald è la lotta contro una nuova inspiegabile ossessione.

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Sembra proprio un cavallo al galoppo, pensò Don.

Tracey diede un’occhiata all’orologio.

L’ombra del palazzo si fece più scura.

«Don, io devo andare. Tu…»

«No», disse. «Senti, Tracey, mi spiace di aver detto certe cose, okay? Credo … credo di aver bisogno di restare un po’ da solo.»

Lei aveva lo sguardo ferito, ma le labbra si aprirono in un sorriso. «Certo. E, senti, ti farò … che ne dici di chiamarmi più tardi, okay? Dovrei essere di ritorno per le sei, ma tu prova anche prima, va bene?»

«Sì», rispose e voltò la testa di scatto per guardarla in faccia. «Sì, lo farò. È solo che…» E intanto fece un cenno di saluto in direzione di Jeff e Flett che stavano andandosene.

«Va bene, veterinario, non ti preoccupare. Però smettila di dirmi tutte quelle stronzate … hai capito?» Poi, con gli occhi spalancati per la sorpresa di quello che stava facendo, si sporse in avanti e lo baciò più forte di quanto si aspettasse, ma non più di quanto desiderasse. «Chiamami, altrimenti ti spezzo le gambe.»

Lui sorrise mentre la osservava correre via, sventolando gli spartiti, i libri e la custodia del flauto. Ma non appena lei raggiunse l’altro lato della strada e girò l’angolo, il suo sorriso sparì e le labbra gli si incurvarono all’ingiù.

A cosa diavolo stava pensando quando le aveva detto che era stato lui ad ammazzare Tar? Se non lo aveva ritenuto un pazzo, voleva dire che era pazza almeno quanto lui; e se anche ci avesse creduto, si sarebbe rifiutata di accettare la parte che riguardava il cavallo.

Si batté un pugno sulla coscia.

Maledizione a Jeff, comunque! E a Fleet. Ma aveva fatto lui un errore, fermandosi in quel punto. Avrebbe dovuto portarla da un’altra parte, forse al parco, dove avrebbe potuto dire tutto senza sentirsi tanto stupido, così lei non avrebbe avuto paura di trovarsi con lui, perché lei aveva paura che l’avrebbe ammazzata perché lui era … Oh, merda. Merda. Perché questo e perché quello, ma perché doveva essere tutto così maledettamente complicato?

Si colpì ancora la gamba e raccolse i suoi libri. Ci fu un momento, trovandosi di fronte alla scuola, in cui pensò di entrare e di andare a parlare con suo padre. Poi vide uscire Falcone, che scendeva due scalini alla volta e si dirigeva velocemente verso la piazzetta. Don si incamminò verso casa, prendendo una scorciatoia in mezzo al prato. Si girò soltanto una volta, sentendo passare una macchina.

Gli cadde un libro. Si chinò per raccoglierlo, senza distogliere lo sguardo dall’auto. Era quella di Falcone e la stava guidando sua madre.

Aveva un paio di occhiali scuri, un foulard scuro sui capelli, ma lui l’aveva riconosciuta ugualmente.

Si voltò a dare un’occhiata piena di panico verso l’ufficio di suo padre; non c’era nessuno alla finestra.

Tornò a guardare, confuso, verso la strada, ma ormai la macchina era sparita.

Senza pensare, si precipitò all’angolo del palazzo e scese gli scalini verso i cancelli dello stadio. Erano ancora aperti, uscì di corsa, mantenendo il ritmo come se stesse esercitandosi. Continuava a sbattere gli occhi. Aveva la bocca aperta. Teneva le braccia immobili sui fianchi. Alla fine del primo giro, si era ripreso abbastanza da muovere correttamente ginocchia e braccia, respirando come si deve, preparandosi a un allenamento che sapeva sarebbe durato a lungo.

Le gradinate erano vuote.

In mezzo al prato si vedeva l’ombra di un foglio di spartito che dava l’impressione di essere un uccello dalle ali tarpate.

Diede un’occhiata alla scuola e notò una faccia alla finestra del terzo piano.

«Vaffanculo, Hedley», disse tra i denti. «Vaffanculo anche tu e lasciami in pace.»

Adam Hedley si stava tormentando i baffi con un dito e si scostò dalla finestra emettendo un verso di sorpresa. Era rimasto a scuola per correggere i compiti, così non avrebbe dovuto portarseli a casa durante il weekend. Non aveva nessun senso andarsene, dal momento che doveva tornare alle cinque e mezzo per prendere i biglietti, ed era già andato al bar a procurarsi dei panini per la cena, che avrebbe mangiato durante la partita.

Ma Boyd aveva cambiato la situazione.

Osservando il ragazzo che si muoveva come uno zombie ubriaco attorno alla pista, gli venne in mente l’esperimento che aveva dovuto ripetere una seconda volta con le limitate attrezzature della stazione di polizia. E i risultati erano stati gli stessi della prima volta. Subito dopo, si era precipitato nell’ufficio di Verona, ma ormai lui se n’era andato e Ronson era partito per un weekend più lungo del normale. Aveva pensato di telefonare al coroner, ma aveva scartato l’idea quasi immediatamente; non era mai andato d’accordo con quel figlio di puttana tanto effeminato, e figuriamoci se si sarebbe abbassato a porgere a quell’uomo la propria testa, specialmente su un piatto che si era preparato da solo. Così aveva deciso di aspettare il momento di parlare da solo con il detective per rendergli note le sue scoperte e, francamente, per scaricargli la patata bollente.

Ma non era più tanto sicuro di voler scaricare quella patata.

In quel momento si stava domandando se non poteva esserci niente, in quella faccenda, da usare contro Norman, specialmente dopo il resoconto della morte di Tarkington Boston — troppo simile a quella di Falwick perché la storia reggesse.

Gli ci volle una buona mezz’ora per ripulire il laboratorio secondo le sue esigenze, maledicendo gli studenti che non sapevano leggere le etichette e ai quali non importava niente di niente. Chiuse a chiave il ripostiglio, gli armadietti e la sua scrivania; spense le luci e si sorprese di quanto fosse buio. Diede un’occhiata fuori dalla finestra e si accorse che le nuvole si erano avvicinate ancora di più e avevano oscurato il sole e i tetti della città.

I vetri vennero colpiti da una folata di vento che fece oscillare le ombre.

Chiuse a chiave la porta e mise le chiavi nella tasca della giacca, si passò le mani nei radi capelli rossi e si diresse verso le scale, facendo attenzione, perché le luci fluorescenti del soffitto non fuzionavano molto bene. Era buio; una luce tremava leggermente. Avrebbe dovuto parlarne con quel cretino di D’Amato. Se non avesse fatto più che attenzione, avrebbe anche potuto rompersi una gamba.

Gli venne da sorridere.

Non sarebbe stato poi tanto male. Avrebbe potuto citare Boyd e sarebbe andato in pensione vittorioso.

Il secondo piano era buio.

Quando raggiunse il primo, fece due passi verso l’ufficio principale, e improvvisamente una porta si spalancò rumorosamente davanti a lui. Si fermò e rimase in ascolto dei passi di un collega ritardatario che se ne andava o della voce di Boyd che gli diceva di raggiungerlo.

Si sentiva l’eco della porta che aveva sbattuto contro la parete, il suono cupo di qualcosa che batteva sulle piastrelle e che rimbombava nel corridoio deserto.

Girò a sinistra. Il corridoio alle sue spalle era buio e l’unica luce che illuminava il corridoio laterale dava l’impressione di trovarsi in mezzo a un banco di nebbia.

Sbatté le palpebre e si diresse verso l’uscita principale, oltrepassò l’ufficio e si domandò come mai non ci fossero luci accese. Di solito, almeno la zona della segreteria restava illuminata per tutta la notte, per dare la possibilità alla polizia di controllare meglio durante le ronde. Strano, pensò, mentre svoltava l’angolo che dava nell’ingresso. Strano davvero, io presterei più attenzione a queste cose.

Un rumore alle sue spalle lo fece fermare — più che altro aveva percepito uno spostamento d’aria.

Diede un’occhiata e non gli piacque quello che vide.

Dall’altra parte dell’ingresso c’erano tre doppie porte che portavano nell’auditorio. Quella al centro si stava chiudendo.

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