Charles Grant - La carezza della paura

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La carezza della paura: краткое содержание, описание и аннотация

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Quale sarà la prossima vittima dello squartatore, il mostro del New Jersey? Il timido Donald Boyd, capace di parlare solo con creature immaginarie di sua invenzione, assalito dal mostro, viene salvato da uno stallone nero che da allora lo difenderà sempre, apparendo dal nulla. Per Donald è la lotta contro una nuova inspiegabile ossessione.

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«No, non eri sveglia. Ti ho svegliato io. Mi dispiace.»

«Non stavo dormendo, veterinario», gli disse lei quasi con rabbia. «Stavo studiando.» Sospirò lentamente e si appoggiò le nocche di una mano tra gli occhi, sulla fronte. «Che cosa succede, c’è qualcosa che non va?»

«Perché dovrebbe esserci qualcosa che non va?»

«Be’, prima di tutto è quasi mezzanotte di un giorno feriale. E poi stai sussurrando.»

«Anche tu.»

«Non ho voglia di essere ammazzata.»

«Nemmeno io.»

Tracey trascinò la sedia verso il corridoio in modo tale da poter osservare la porta d’ingresso. Suo padre avrebbe dovuto far ritorno da un momento all’altro e non aveva intenzione di farsi sorprendere al telefono. Dopo essersi appoggiata allo schienale, sollevò le gambe e le incrociò all’indiana. «Don, che cosa succede? Vuoi propormi di fuggire con te o qualcosa del genere?»

Lui si mise a ridere e lei fu felice di quella reazione; era da un po’ di tempo che non lo vedeva in quel modo e le fece piacere. «Forza, eroe, che cos’è successo?»

Ascoltò senza fare commenti il resoconto della macchina e dell’uccello che avevano trovato sgozzato in giardino. E quando lui le disse che le chiavi di Boston erano sotto la ruota della bicicletta, Tracey esclamò: «Che stronzo. Che brutto stronzo.» Poi gli domandò che cosa avesse intenzione di fare.

«Non lo so. Pensavo di fargli sapere che io so e chissà che non mi lasci in pace. Ma credo che negherebbe tutto e poi mi rovinerebbe la faccia a forza di pugni.»

«Dio, che disastro.»

Lui non rispose e allora Tracey strinse gli occhi. Non era quello il problema, pensò; non era per quello che aveva chiamato.

«Tracey?»

«Sono sempre qui, eroe.»

Una pausa. «Preferisco veterinario.»

Lei corrugò la fronte. «Certo. Va bene.»

«Trace, questo potrà suonarti stupido, ma tu non hai mai espresso un desiderio?»

Non ho mai espresso un desiderio, pensò lei, ma stai impazzendo, Don?

«Ma certo», rispose. «Ogni anno, il giorno del mio compleanno, mi svuoto i polmoni sulle candele augurandomi di guadagnare un miliardo di dollari e di comprarmi una casa a Beverly Hills. Ma lo fanno tutti.»

«Non esprimi mai desideri sulle stelle?»

«Ma che cos’è? Ehi, stai cercando di farmi fare qualche compito o qualcosa del genere? Si tratta di questo? Stai facendo un’inchiesta?»

«Tracey, ti prego.»

E fu allora che se ne accorse, ma non poteva crederci. Don aveva paura di qualcosa, e non era Tar Boston.

«Okay», rispose lentamente. «Sì, ogni tanto lo faccio.» Si mise a ridere. «Sono stupida, vero?»

«Non si avverano mai? I tuoi desideri, intendo dire.»

«Don … no. Cioè, non credo proprio. Non come se fosse per magia, comunque. Si può desiderare tanto una cosa da farla diventare per incanto reale? No. Bisogna lavorarci e fare in modo che si avveri, ma con le proprie mani, non so se mi capisci.»

«Dio.»

«Ehi, veterinario, mi vuoi per favore dire di che cosa si tratta?»

«Tracey…»

Un rumore di chiavi nella serratura e Tracey disse velocemente a Don che stava rientrando suo padre e che si sarebbero visti il giorno dopo a scuola. Riappese il ricevitore e rimise a posto la sedia proprio nel momento in cui suo padre faceva il suo ingresso. Quando le chiese come mai fosse alzata a quell’ora di notte, lei indicò i libri che stavano nel salotto e gli spiegò che non era riuscita ad addormentarsi; stava per aggiungere qualcos’altro, ma venne fermata dall’espressione del suo viso. Che cos’era successo, non stava bene?

«No», rispose lui malinconicamente. «Qualcuno è stato investito da un tizio che poi è fuggito. Tutto qui.»

«Oh, Dio, no», esclamò Tracey, mordendosi il labbro inferiore. «Era qualcuno che conoscevo?»

Lui si strinse nella spalle. «Non lo so.»

«Papà.»

Suo padre si diresse verso la cucina, ma lei lo fermò appoggiandogli una mano sul braccio.

«Papà?»

«Ti prego, piccola, va’ a letto.»

«Che cos’è successo?» insistette lei.

«È stato come se qualcuno l’avesse investito senza sosta. Andando continuamente avanti e indietro. È talmente mal ridotto che non siamo ancora riusciti a riconoscerlo.»

16

Il giorno dopo non fu poi così male come si era immaginato. Le lezioni erano state accorciate di venti minuti, per cui si rivelarono inutili e qualcuna venne saltata completamente. Don trascorse la maggior parte del tempo alla ricerca di Tracey, ma l’unica volta che riuscì a vederla lei era con un gruppo di amiche e indossava a disagio l’uniforme rossa e nera della banda. Gli mandò un messaggio da lontano, ma lui le fece segno di non aver capito e se ne andò prima che suonasse l’ultima campana.

Brian se ne stette alla larga ed entrò addirittura in una classe sbagliata con il solo scopo di evitarlo. Don lo vide e sorrise, pensando che, dopotutto, quella medaglia che gli avevano dato poteva fruttargli qualche cosa di buono.

Ma la sala di lettura aveva un che di strano. Andò a sedersi al suo solito posto e aprì il testo di zoologia, cercando di scoprire che cosa potesse avere in comune con il mondo reale il suo stallone. Cinque minuti dopo si sentì osservato. Ormai ci aveva fatto l’abitudine — gli studenti della sala di lettura lo osservavano di sottecchi, qualcuno lo fissava apertamente, altri in modo più timido, come se volessero saltargli addosso per tastargli i muscoli, per strappargli la camicia, qualsiasi cosa per scoprire il segreto di quella forza che gli aveva permesso di distruggere lo Squartatore.

Ma quello sguardo era diverso. Dai ragazzi traspariva un senso di invidia, di incredulità e una certa dose di rispetto, mai accordatogli fino allora; ma quello era uno sguardo impossibile da identificare.

Alzò gli occhi e si guardò attorno. Gli altri stavano leggendo o parlavano sommessamente con i vicini. Non c’era nessuno della squadra di football; erano già tutti in palestra a prepararsi per la partita.

Era il signor Hedley. Era seduto dietro la scrivania con il viso appoggiato a una mano e lo stava fissando. Senza imbarazzo. Senza nascondersi.

Don abbassò immediatamente lo sguardo e girò pagina, poi un’altra e gli lanciò un’occhiata senza alzare la testa.

Hedley lo stava guardando ancora e improvvisamente Don si sentì intrappolato in una delle provette che il professore usava per i suoi esperimenti, come se dovesse fluttuare per sempre in qualche soluzione chimica, per essere studiato attentamente prima di essere scaricato in qualche lavandino.

Deglutì, tornò indietro di qualche pagina, e poi ancora avanti, sforzandosi di leggere qualche paragrafo a caso, senza capirne il significato, senza registrate le illustrazioni. E quando alzò lo sguardo per la terza volta e si accorse che l’uomo lo stava ancora osservando, sentì le spalle irrigidirsi e improvvisamente ebbe difficoltà di respiro.

Lui sa, pensò Don, allontanando immediatamente quell’idea.

No. Nessuno lo sa. Non può sapere.

Si agitò sulla sedia e si girò verso le vetrate da cui si vedevano le nuvole ammassate all’orizzonte, che apparivano più scure e più alte in contrasto con l’intenso chiarore del cielo non ancora toccato dal temporale imminente. I tetti delle case vicine allo stadio sembravano più aguzzi e meno squallidi, il campo da football più brillante, tutti i colori più vivi e vibranti. Era strana, quella luce, come se fosse artificiale. Don osservò il muro di cinta dello stadio e la casa retrostante e pensò che tutto sembrava essere stato tagliato nella pietra e rifinito con un diamante. Era contemporaneamente meraviglioso e irreale, quasi terrorizzante.

La voce di Hedley suonò tranquilla. «Signor Boyd, non ha niente da fare?» Nessuno rise.

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