Dopo qualche minuto si stirò, si alzò in piedi e si diresse alla finestra.
Il giardino sul retro era vuoto.
Va bene, pensò rivolto al suo amico nell’oscurità, adesso che so che ci sei, che cosa dobbiamo fare?
«Stupido mostricciattolo», disse Tar. Si avvicinò al cane allungando una mano in segno di amicizia. Quel vecchio fagotto era uscito di nuovo, probabilmente passando dalla porticina che Delfield aveva installato nel portone sul retro. A volte il vecchio si dimenticava di mettere il chiavistello e il cane andava in giro per ore nel vicinato, attaccando i bidoni della spazzatura, sradicando fiori dalle aiuole, finché qualcuno lo individuava e lo riportava indietro. Tar l’aveva sempre ignorato, ma una sera il cane lo aveva disturbato mentre beveva una birra e allora lui l’aveva afferrato e l’aveva riportato indietro. Delfield gli aveva dato dieci dollari per il disturbo. Pazzo. Dopotutto si trattava solo di un cane.
Ma, diavolo, pensò mentre si accucciava, dieci dollari sono dieci dollari.
«Forza, stupido», disse con tono amichevole. «Vieni da Tar, altrimenti ti stacco la testa.»
Il bassotto riconobbe la voce e si fermò in mezzo al raggio di luce del lampione, scodinzolando furiosamente.
«Forza, piccolo, vieni da Tar.»
Il cane si sedette sulle zampe posteriori.
«Ah, Cristo.»
Si allungò e fece un altro passo avanti, ma si fermò quando si accorse di un’altra ombra oltre la luce.
Il cane guaì e saltò ai suoi piedi, a testa bassa, con la coda tra le zampe. Tar si guardò intorno e si spostò in mezzo alla strada, schioccando le dita per farsi seguire dal cane e tentando di capire che cosa ci fosse per la strada.
Si alzò il vento.
Sul viale, alle sue spalle, passò sbuffando un camion con rimorchio.
Poi una mano emerse nella luce e afferrò il cane, e comparve John Delfield, che cominciò a scuotere la bestia e ad abbracciarla teneramente.
«Brutta bestia», disse con leggero accento tedesco.
Sorrise a Tar. «Stavi cercando di prenderlo per riportarmelo?»
Tar annuì, domandandosi che cosa diavolo avesse il suo cuore che non voleva calmarsi. Diavolo, era solo il vecchio Delfield, perché mai si era spaventato in quel modo?
Il bassotto si agitava tra le braccia dell’uomo, ma Delfield riuscì a raggiungere la tasca della giacca e a estrarre il portafoglio. Tolse una banconota.
«Prendila», insistette, vedendo che Tar protestava con la mano. «Hai tentato. È come se l’avessi fatto.»
Tar accettò i soldi annuendo con un sorriso e lo guardò sparire dietro l’angolo. È pazzo, pensò; sono tutti e due pazzi. Poi si passò una mano tra i capelli e decise di continuare alla volta di Pratt. Però non aveva più voglia di camminare. Cercò le chiavi della macchina, ma non riuscì a trovarle.
«Che cosa…?»
Si tastò le tasche, le rivoltò e poi alzò gli occhi al cielo e si colpì con una mano la tempia. «Cazzo. Gesù … Cazzo!»
Doveva averle perse mentre stava facendo il servizietto alla station wagon dei Boyd. Cristo, se qualcuno le aveva trovate l’avrebbero fregato. Dannazione, doveva tornare a cercare quelle maledette chiavi. Iniziò a perlustrare il marciapiede e poi si fermò.
Verso la fine dell’isolato, malamente illuminato dai lampioni della strada della scuola, c’era qualcosa. Si sentiva osservato.
Delfield, pensò; quello stupido cane dev’essere scappato un’altra volta e il vecchio è ancora per strada a cercarlo.
Si spostò, uscendo dal raggio di luce, verso il buio, e fu allora che sentì il rumore chiaro di qualcosa che respirava. Qualcosa di grande, che respirava pesantemente.
Si voltò verso il viale, girando lentamente la testa. Si era sbagliato; non era Delfield e non era nemmeno la sua immaginazione.
C’era qualcosa, ed era più scura dell’oscurità, e si stava muovendo verso di lui lungo la linea bianca sulla strada. La sentiva respirare, sbuffare, e sentiva il rumore di qualcosa che picchiava forte sull’asfalto, ritmicamente, costantemente. A meno che non fosse pazzo come Delfield, aveva l’aria di essere un cavallo.
Guardò attentamente e fece un passo verso il viale.
Fremette, incapace di scacciare la sensazione che quella cosa, qualunque cosa fosse, non si trovasse casualmente da quelle parti; era arrivata fin lì per lui. Era stupido. Era tutto una stupidaggine. Non c’erano cavalli ad Ashford e, santo cielo, doveva essere Delfield ancora una volta alla ricerca del suo stupido cane grasso.
Si avvicinò alla luce e si accorse di un guizzo di bagliore verde scuro; i bagliori divennero due e dovette far passare qualche secondo prima di rendersi conto che si trattava di due occhi. Occhi verdi, grandi e allungati, che stavano fissando proprio lui.
La luce del lampione non arrivava a illuminare il centro della strada, ma sulla striscia bianca Tar riuscì a intravedere una massa scura con il profilo di una testa. Si vedeva luccicare soltanto un occhio verde. E per un secondo intravide una serie di denti bianchissimi.
Del vapore, forse del fumo, usciva dalle narici.
«Merda!» esclamò e si diede alla fuga. Non sapeva di che cosa si trattasse, ma non aveva intenzione di restare lì per scoprirlo. Se ne sarebbe andato da qualche altra parte. Forse Brian avrebbe potuto dargli una spiegazione.
Il rumore dei passi aumentò di velocità e quando raggiunse la metà del viale ormai deserto, si guardò alle spalle e riuscì a vederlo bene.
Correva, galoppando veloce, mentre gli zoccoli provocavano scintille verdi e gli occhi lanciavano lampi pieni d’odio.
Crollò la speranza che potesse trattarsi di uno scherzo, che potesse essere Don che lo inseguiva per vendicarsi dell’uccello morto e della bicicletta. E sentì qualcosa che dal più profondo di se stesso gli stava dicendo che era sul punto di morire.
Correva, galoppava, ma, paradossalmente, sembrava una scena girata al rallentatore.
Tar cominciò a correre come un disperato in direzione del centro.
Prima o poi avrebbe incrociato una macchina, la polizia o qualcun altro.
Non guardare. Ma si voltò.
Lo stava seguendo a pochi metri di distanza, tenendosi ben in vista con la sua figura terrificante. Gli occhi verdi lo fissavano, sbuffava fumo verde, e dalle narici si sollevava una nuvola, come se fosse un fantasma color avorio.
Tar riprese a correre ancora più veloce, inciampando in un ramo caduto per terra, scontrandosi con un cespuglio e poi con un albero; fece un giro e si rimise a correre.
Gli zoccoli colpivano l’asfalto, ferro contro ferro.
Sorpreso da un nuovo, improvviso ostacolo, Tar cadde per terra, ustionandosi i palmi delle mani sull’asfalto e sbattendo una guancia con violenza. Gli occhi gli si riempirono di lacrime per il dolore. Rimase a terra per qualche secondo respirando pesantemente, domandandosi dove fossero finiti tutti quanti, come mai nessuno si stesse accorgendo di quello che succedeva. Ingoiò saliva che sapeva di sangue; si raggomitolò e poi cercò di alzarsi in piedi.
Sentì uno sbuffo; si voltò e lo vide davanti a sé.
Tar urlò il nome del padre.
Lo stallone si impennò, avvolto in una nuvola di fuoco verde e bianco.
Squillò il telefono e Tracey si precipitò in cucina afferrando il ricevitore prima che sua madre si svegliasse. Non era riuscita ad addormentarsi ed era scesa da basso per cercare di studiai, nella speranza che i libri le facessero venire sonno. Appoggiò un ginocchio su una seggiola, sapendo chi era ancora prima di alzare il ricevitore, e aspettò qualche secondo prima di rispondere.
«Trace?»
«Don?» Cercò a tastoni la sedia e si sedette nell’oscurità.
«Sei sveglia?»
«Sì, certo.» Scrutò l’orologio a parete, ma la penombra le consentì soltanto di intravedere che era quasi mezzanotte.
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