Aumentò il passo, come se dovesse raggiungere la meta mentre Pratt, quello stronzo, lo stava bloccando.
La parte più difficile era stata la macchina. Sapeva di avere poco tempo per assestare un paio di colpi decenti prima che lo sentissero, e dopo aver sistemato la bicicletta, si era dato da fare con il cofano della macchina. Aveva fatto finta che il parabrezza fosse la faccia di Boyd, che il cofano fosse il torace di Paperino, ed era stato meraviglioso! Era un peccato che Brian non fosse stato presente. Ma si stava comportando come uno stronzo, come se fosse sicuro che gli esperti l’avrebbero portato via per il Super Bowl subito dopo la partita, Cristo santo!
Svoltò un altro angolo e si diresse verso casa, respirando profondamente e con soddisfazione. Non sarebbe andata così la sera dopo. Avrebbe disfatto Ashford Nord senza nemmeno che quei coglioni se ne accorgessero. Sarebbe stato un campione, e Brian avrebbe dovuto portargli rispetto. Senza dubbio.
Qualcosa si mosse alle sue spalle.
Si voltò e tornò indietro di un paio di passi, ma non vide nient’altro che la strada deserta, le luci dei porticati che luccicavano nell’aria cristallina, le macchine parcheggiate lungo i marciapiedi, silenziose e scure. Si voltò ancora e gemette quando si accorse di un furgoncino malandato che bloccava la sua automobile nel vialetto — il suo vecchio era tornato prima del solito dalla fabbrica quella sera. Questo significava che avrebbe dovuto far fronte alle manate sulle spalle e alla serie di ricordi che il vecchio aveva dei tempi in cui era una star, il miglior quarterback dello stato, e non sto scherzando, ragazzo, ascoltami quando ti do qualche consiglio perché è il migliore che tu possa sentire in vita tua. Il problema era che il vecchio aveva giocato almeno vent’anni prima di lui, e il coglione non se ne rendeva conto. Non sapeva come avesse fatto sua madre a reggerlo per tutti quegli anni. Lui, di sicuro, non ci sarebbe riuscito. Non appena ottenuto il diploma, se ne sarebbe andato. Via da quella casa e via da quella città e fuori da quel fottutissimo stato, se ne avesse avuto la possibilità.
Qualcosa si mosse.
Merda, pensò, infuriato per come la sola idea di suo padre gli aveva rovinato il buon umore. Merda!
Si guardò alle spalle, con un’espressione di sfida rivolta a chiunque osasse dirgli qualche cosa, a chiunque osasse fiatare. Oltrepassò casa sua a testa bassa e si allontanò, dopo aver sputato al furgoncino, dopo essersi chiuso la cerniera del giaccone ed essersi infilato le mani in tasca. Cazzo, se ne sarebbe andato da Brian, invece di limitarsi a chiamarlo. Sarebbe anche stato meglio, gliel’avrebbe raccontato di persona.
Qualcosa…
Si fermò sul vialone, guardò da entrambi i lati della strada e poi si voltò di scatto, tenendo pronti i pugni.
Non c’era niente, là dietro.
Ma qualcosa si stava muovendo.
«Tu!» urlò.
La luce di un porticato si spense.
Con la testa leggermente inclinata, scese dal marciapiede e guardò curiosamente l’isolato, sotto gli alberi che si perdevano nell’oscurità e che, in alto, formavano una galleria decisamente buia. Cercò di richiamare alla mente l’immagine della faccia disgustata di Don quando aveva ritrovato l’uccello morto, quando si era accorto della bicicletta, perché improvvisamente e inspiegabilmente qualsiasi cosa era meglio che stare a osservare nell’oscurità. Ma non vedeva altro che una linea rotta e sbiadita che si allargava nella notte mentre qualcosa si muoveva verso di lui senza fare rumore.
«Tu, stupido!» urlò.
Funzionava solo un lampione, nella strada.
«Stronzo», mormorò e si voltò, ma senza fare un passo. Improvvisamente non seppe che cosa fare. Beacher era già chiuso e l’idea di andarsene da Brian non sembrava più divertente come qualche minuto prima. Ma non poteva tornare a casa. Non ancora. Non prima che suo padre si fosse scolato le sue solite birre e si fosse addormentato sul divano e non prima che sua madre avesse finito di lavare i piatti. Poi sarebbe riuscito a dare il bacio della buonanotte e ad andarsene a dormire. Il giorno dopo, come l’allenatore continuava a ripetere, era il Grande Giorno e, dopotutto, aveva il diritto di prendersi tutto il riposo che poteva.
Il giorno dopo sarebbe stato un eroe e al diavolo Brian Pratt.
Poi sentì qualcosa muoversi e si voltò di nuovo, tirando un profondo respiro e trattenendolo finché non vide il bassotto di John Delfield che trotterellava verso la luce.
Don era sotto la doccia, dimentico dell’acqua bollente che gli stava arrossando la pelle. Lentamente, tirò da parte la tendina di plastica e si mise a fissare un’altra volta i jeans che si trovavano accanto al cesto della biancheria sporca. Da una tasca faceva capolino un pezzo di cuoio rosso. Lasciò andare la tendina che si richiuse di scatto, mentre l’acqua ricominciava a colpirgli il viso. Si chiese che cosa stesse succedendo. Sapeva a chi appartenevano quelle chiavi. Sapeva che cosa avrebbe dovuto fare subito dopo averle ritrovate. Eppure se l’era messe in tasca e non aveva detto niente. Non aveva ascoltato una sola parola di quello che aveva detto suo padre davanti all’uccello morto, non aveva sentito nient’altro che una leggera sensazione di nausea, che però era riuscito a scacciare.
Norman aveva suggerito di non parlarne con sua madre; era già abbastanza preoccupata per la macchina e non c’era motivo per angustiarla ulteriormente. Aveva avanzato sospetti su Brian, Tar, persino su Fleet, e qualcosa nella sua voce aveva attirato per un istante l’attenzione di Don — la sensazione che a suo padre non piacessero i ragazzi.
Non erano solo degli scocciatori, degli snob, i figli di genitori che consideravano il preside come se fosse un diavolo — erano ragazzi, punto e basta. E a Don era tornato in mente che suo padre, una volta, aveva detto che sarebbe stato meglio se i figli avessero potuto nascere già adulti, in grado di uscire subito di casa, indipendenti e maturi. In quel momento Don l’aveva preso come uno scherzo; ma ormai sapeva bene, e forse anche meglio di Norman stesso, che non era stato affatto uno scherzo.
Questo, più di ogni altra cosa, gli aveva fatto distogliere lo sguardo da quello scempio. Suo padre, nello stato in cui si trovava, sarebbe stato capace di andare dai Boston per fare arrestare Tar — ovviamente dopo averlo sbattuto un paio di volte al muro.
E tutto per una macchina; a volte si vince, a volte si perde, era stato l’epitaffio per la sua bicicletta.
Si allontanò dal getto della doccia, si asciugò la faccia e si sedette sul bordo freddo della vasca con le mani che ciondolavano fra le ginocchia. Tracey aveva ragione; ma non era solo Brian a essere geloso, anche Tar lo era. Dubitava che Pratt avesse ordinato all’amico di portare a termine quella missione, perché non era nello stile di Brian. Ma forse Brian aveva detto qualcosa durante la giornata che aveva indotto Tar a fare una mossa nei confronti di Don, una rappresaglia, per chiamarla come aveva fatto suo padre.
Spostò nuovamente la tendina e guardò verso il portachiavi, sorridendo. C’era del potere in quel pezzo di cuoio da quattro soldi. Lo sapeva e ormai non doveva fare altro che pensare a come utilizzarlo.
La cosa più semplice sarebbe stata la minaccia di mostrarlo a suo padre. E nel caso non avesse funzionato, avrebbe potuto portarlo alla polizia. Tar avrebbe protestato, ovviamente, e avrebbe dichiarato di averlo perso o qualcosa del genere, ma avrebbe causato abbastanza rumore, abbastanza problemi…
«Ti farò sputare sangue.»
Le parole uscirono soffici in quella cortina nebbiosa, ma con sufficiente chiarezza da farlo sospirare.
Qualcuno bussò alla porta, allora chiuse la doccia, afferrò un asciugamano e se lo avvolse intorno al corpo. Sua madre lo chiamò e lui rispose che ne avrebbe avuto solo per qualche minuto. Dopo essersi asciugato, prese i jeans e scivolò nel corridoio. C’era ancora accesa una luce nella stanza dei suoi genitori. Il piano di sotto era buio. Rabbrividendo alla folata d’aria fresca che si avventò sulla sua pelle, si precipitò in camera e si chiuse la porta alle spalle, lasciò cadere i jeans e si buttò sul letto.
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