Charles Grant - La carezza della paura

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La carezza della paura: краткое содержание, описание и аннотация

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Quale sarà la prossima vittima dello squartatore, il mostro del New Jersey? Il timido Donald Boyd, capace di parlare solo con creature immaginarie di sua invenzione, assalito dal mostro, viene salvato da uno stallone nero che da allora lo difenderà sempre, apparendo dal nulla. Per Donald è la lotta contro una nuova inspiegabile ossessione.

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Non aveva ammazzato lui lo Squartatore; era stata quella creatura, quell’animale era suo amico.

«Perché?» mormorò allora. «Perché continuano, allora?»

Il cavallo si allontanò, lasciandolo solo.

Tirò su con il naso e si asciugò gli occhi con la manica.

«Non la smetteranno mai, lo sai? Continuano a venire da me, non mi lasceranno mai in pace. Io non sono Sam, non sono speciale. Sono soltanto io, e non la smetteranno mai…» Si fermò, abbassò il capo e si asciugò ancora gli occhi. «Vorrei solo sapere che cos’ho fatto di sbagliato, sai? Se solo mi dicessero che cos’ho fatto di sbagliato, forse le Regole non cambierebbero così, tanto, forse capirei che cos’è successo.»

Fu allora che lo sentì, nel freddo. Lo stallone stava ascoltando — ogni parola che diceva, ogni lacrima che versava veniva captata dagli occhi color smeraldo e dalle orecchie erette.

Voleva domandare anche il motivo per cui non gli permettevano di essere un eroe; voleva domandare perché non poteva piangere, perché non poteva arrabbiarsi, perché le Regole dovevano essere rigide come il marmo; e voleva domandare perché non riuscivano a decidersi se fargli fare il ragazzino o farlo diventare un uomo una volta per sempre. Ma non lo fece, perché sapeva che il cavallo aveva già capito e tutto sarebbe andato bene — sarebbe andato tutto bene per il semplice motivo che c’era lui a proteggerlo.

Sorrise tra le lacrime.

Lo stallone sbuffò fumi grigi, sbuffò di nuovo e soffiò via il fumo.

«È vero», disse, tra un sospiro e l’altro. «È vero, tu sei il mio amico.» Rise dolcemente. «Oh, Dio, è vero!»

Allungò una mano per accarezzargli il muso, per stringere quel patto, e si sentì gelare quando l’animale cominciò a fare versi di gola e ad arretrare. Cercò di seguirlo. Stava quasi per irrompere in casa quando andò a mettersi sotto l’albero, spezzando rami, facendo cadere foglie già morte, lanciando in aria fiammate e occhiate verdi e battendo gli zoccoli per terra.

Si videro i fari di un’automobile brillare dall’angolo della casa.

Oh, merda, pensò; dannazione, sono tornati.

Il cavallo abbassò la testa, gli occhi erano diventati scuri, mentre la coda oscillava tra le zampe.

«Va bene», disse nervosamente. «Va bene, devo andare, adesso.»

Il cavallo non si mosse.

Don tornò verso la porta della cucina. Aveva voglia di ridere, di urlare, di correre nel vialetto per sorprendere suo padre, per fargli vedere, per fargli vedere quello che suo figlio era capace di fare.

Con una mano sul pomello della porta, si girò a dare un’occhiata e riuscì a individuare il suo amico solo grazie agli occhi verdi. «Ti prego», disse. «Ti prego.» E corse dentro, arrivando nell’ingresso in tempo per sentire il rumore delle chiavi che giravano nella serratura e i suoi genitori che parlavano nel portico, ad alta voce, ma senza litigare. Si voltò verso le scale per dare l’impressione di essere sul punto di salire, e in quel momento sua madre entrò, chiudendosi la porta violentemente alle spalle e passandogli davanti per andare in cucina. Suo padre la seguiva, più lento, con la giacca sulle spalle e una faccia pallidissima.

«Che cosa fai alzato?» gli domandò in malo modo e non aspettò una risposta. Puntò un dito in segno di comando verso l’alto e seguì sua moglie.

Sto bene, pensò Don mentre si apprestava a salire le scale; grazie di avermelo chiesto, sto bene.

«Non ne posso più», esclamò Joyce ad alta voce e lui si fermò sul pianerottolo.

«Tieni bassa la voce! Il ragazzo ci può sentire!»

Ci fu una risata, breve e amara. «Sentire che cosa? Non sono una bestia e non sono una cretina. Che cosa ti fa credere che mi possa sentire?»

«Cristo, sei pazza, lo sai questo?»

Lei rise ancora e Don si accucciò tenendo una mano sulla ringhiera nel caso avesse dovuto muoversi velocemente.

Le antine degli armadietti vennero sbattute, delle tazzine andarono in frantumi, il rubinetto fu aperto così forte che avrebbe potuto riempire una vasca da bagno. Sentì suo padre ridere, una volta che l’acqua fu chiusa.

«Parola d’onore, sei veramente strana, lo sai? Sei veramente strana.»

«Be’, insomma», disse Joyce. «Ti hanno chiesto solo di alzarti in piedi e di ringraziare il pubblico e ti sei messo a parlare come un politicante! Cristo, temevo solo che ti mettessi a baciare anche i bambini.»

«Non sarebbe stata una cattiva idea.»

Venne mossa una sedia, un’altra cadde per terra.

«Va bene», disse Norman con fatica. «Va bene, mi dispiace.»

«È troppo tardi per scusarsi. Tu e il ragazzo mi avete snobbato e preso in giro fin da quando è iniziata questa storia e ne ho abbastanza! Io mi sono ammazzata di fatica e tu ti prendi tutto il merito, e questo è il ringraziamento che ne ricevo.»

«Io…» Un rumore soffocato — era Norman che cercava di soffocare una risata. «Dio, la prossima cosa che farai sarà quella di accusarmi di aver mandato fuori io Don ad ammazzare quel bastardo.»

«Non mi stupirebbe affatto.»

Il silenzio che cadde fu glaciale e Don si strofinò il braccio libero contro il petto.

«Che stronzata che hai detto, Joyce.»

«Lo so», disse lei, ma senza tono di scusa nella voce. «Io…» Cominciò a piangere e Norman bestemmiò, poi l’acqua riprese a scorrere.

Don non voleva più ascoltare. Salì gli ultimi gradini, percorse il corridoio ed entrò in camera sua. Tolse l’asciugamano dalla lampada e lo lasciò cadere sulla scrivania. Rimase alla finestra per un momento, guardando verso l’albero. Non c’era niente, il cavallo era sparito, ma non si domandò più in che stato fosse la sua mente.

Quando finalmente si lasciò andare sul materasso, lo fece in modo da far sbattere la testa contro la parete. Forse mi hanno sentito, pensò; forse penseranno che ho avuto una ricaduta o qualcosa del genere, e verranno su di corsa per vedere se c’è qualcosa che non va.

Oppure, pensò, chiameranno prima i giornalisti e poi verranno a vedere se sono morto.

E chissà, pensò con un sorriso freddo e impietoso, potrei anche portarli fuori per far vedere loro il mio nuovo cucciolone.

Rimase in quella posizione per un’ora circa prima di riscuotersi e fu allora che notò suo padre sulla porta.

«Stai bene, figliolo?»

«Certo. Stavo solo pensando.»

«Sarà meglio che spegni la luce. Domani non sarà la solita giornata di scuola per te.»

Annuì e tirò su i piedi. «Papà?»

Norman si irrigidì e alzò le sopracciglia.

«Credi…»

Un improvviso rumore di vetri infranti lo interruppe. Scattò in piedi e seguì suo padre nel corridoio. Joyce usciva in quel momento dalla camera da letto con una vestaglia che la copriva a malapena.

«Che cos’è?» domandò nervosamente.

Un altro rumore e il suono di colpi pesanti su qualcosa di metallico.

«Maledizione, la macchina!» esclamò Norman e si precipitò sulle scale. Don lo seguì, nonostante sua madre gli dicesse di restare dove si trovava. La porta era chiusa a chiave e Norman tastò alla ricerca della serratura, la aprì e accese la luce del porticato.

Don si precipitò fuori prima di lui, senza accorgersi dell’ondata di aria fredda che andava a colpirlo sul torace nudo.

«Oh, Dio», sussurrò.

Norman lo spinse da parte e si precipitò sugli scalini, corse per il vialetto e non si fermò fino a quando non si scontrò con il parafango anteriore della station wagon. Il parabrezza era in frantumi, sul cofano c’era un’ammaccatura, e sull’asfalto, sotto il paraurti, c’era la bicicletta di Don. Il manubrio era stato attorcigliato, la ruota anteriore era rotta e metà dei suoi raggi erano sparpagliati come antenne in giro lungo il ciglio della strada.

Norman si girò e andò a fare il giro della casa, Don invece si inginocchiò accanto alla bicicletta, allungò una mano per toccarla, la ritrasse e l’allungò di nuovo, seguendo le linee della distruzione. Quando si spostò e si sporse in avanti per dare un’occhiata alla ruota posteriore, vide un portachiavi di cuoio rosso incastrato sotto la carcassa ormai rovinata.

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