Meraviglioso, pensò, quando nemmeno io so gestire i miei.
Poi suonò la campana e la scuola si vuotò e, dopo aver finito il lavoro, dopo aver firmato l’ultima lettera rimasta sulla sua scrivania, si diresse verso casa.
Il sole si stava già accucciando dietro le punte degli alberi; davanti a lui, sul marciapiede, si muovevano ombre scheletriche e sapeva che non sarebbe riuscito a evitare di andare alla Nord, dopo cena, per ascoltare il programma vocale della scuola. Avrebbe preferito sistemare i piedi sul tavolino e guardare alla TV la partita di football o un film, oppure attraversare la strada per andare da John Delfield a giocare con il suo stupido bassotto o a fare qualche partitina a carte. Avrebbe preferito chiamare Chris per invitarla a casa a fare una bella scopata.
Si fermò all’inizio del vialetto, si grattò il naso e si accorse delle prime stelle che luccicavano debolmente sopra la casa.
Problemi, pensò di nuovo, e non si mise a correre quando sentì il rumore alle sue spalle, qualcosa di grande e lento che colpiva l’asfalto. Sembrava un cavallo, ma non aveva voglia di guardare; primo, perché era impossibile; secondo, perché si ricordò dell’ombra che aveva visto nel laghetto qualche giorno prima.
Non era normale; non era amichevole.
Adam Hedley fissò le fotocopie dei rapporti di laboratorio che aveva scritto a macchina lui stesso la mattina prima e accorgendosi di aver fatto un errore, emise un gemito che rimbombò per tutta la casa. Un errore di disattenzione. Non aveva mai commesso uno sbaglio del genere in tutta la sua vita.
Tenne alto il foglio, lasciando che il raggio tremolante del proiettore cadesse sulla cartella della polizia, ignorando per il momento i sospiri e i lamenti che provenivano dallo schermo che aveva eretto nella sua cantina, per concentrarsi sul linguaggio preciso che aveva usato per descrivere il bastone che Donald Boyd aveva utilizzato per metter fine alla vita di un pazzo.
Dopo averlo letto per la quarta volta, spense il proiettore e si precipitò su per le scale. Non c’era altra scelta; avrebbe dovuto andare alla centrale in cerca di Ronson o di Verona, per vedere se gli permettevano di ripetere gli esami.
Abbottonandosi il cappotto grigio fino al collo, si fermò sulla veranda e arricciò il naso prima di dirigersi verso la sua macchina. La puzza se n’era andata, ma lui continuava a sentirla, a percepirla, e cominciò a pensare che forse era arrivato il momento di cambiare casa.
Avrebbe dovuto chiamare anche l’ufficio del coroner. Se aveva fatto un errore, l’avevano commesso anche loro.
Poi si sedette dietro il volante, fece girare la chiavetta e controllò che non sopraggiungessero altre vetture.
Vide che c’era qualcosa in mezzo alla strada, verso l’angolo più distante, oltre la luce che l’unico lampione sopravvissuto ai teppisti locali emanava.
Era ferma, aspettava, e chissà per quale ragione Hedley fece un’inversione a U e si diresse dalla parte opposta.
Dopo l’allenamento, Brian andò a sollevare i pesi con Tar, Fleet e una mezza dozzina di altri ragazzi della squadra fino all’ora di cena, poi si fece una doccia ben sapendo di essere osservato da Gabby D’Amato e si precipitò a casa accorgendosi che qualcosa alle spalle lo stava tenendo d’occhio, in silenzio, nascondendosi nel buio.
Fleet andò a casa con la berlina ammaccata di Tar, guardando nello specchietto retrovisore tanto spesso che Boston quasi lo cacciò fuori dalla macchina.
Jeff aveva addotto una scusa per non andare a sollevare i pesi quel pomeriggio. Sapeva che Tar aveva detto qualcosa a Brian a proposito dell’altro giorno e non voleva che lo colpissero con un bastone tra le gambe. Fece i compiti, pulì la stanza e ogni volta che passava davanti a una finestra non riusciva a fare a meno di guardare fuori, cercando qualcosa che si nascondeva, domandandosi se fosse il caso di chiamare Tracey, ma timoroso di alzare il ricevitore del telefono.
Lo chiamò suo padre per dirgli che avrebbe lavorato fino a tardi in ufficio, per cui si preparò la cena da solo, dando le spalle alla finestra della cucina.
Dopo aver lavato i piatti, fissò il telefono, si pulì le mani contro i jeans, si tolse gli occhiali e li strofinò con la camicia.
Era uno stupido. Ma sapeva che, se avesse alzato la cornetta in quel momento, non avrebbe sentito niente, nemmeno il rumore della linea libera. Nemmeno un brusio.
Solo il vuoto, come quell’ombra che aveva visto per strada, qualcosa di più che un’ombra, qualcosa di meno della notte.
Dopo cena, Tracey cercò di telefonare a Don. La linea era occupata e ricordandosi della ferma promessa che si era fatta, chiuse la bocca, scese le scale e andò a prendere il cappotto dal guardaroba. Sua madre le domandò dove stesse andando e Tracey glielo spiegò; suo padre ancora non si era mosso dal divano sul quale stava facendo un sonnellino.
«Ti prego», disse sua madre, guardando con paura l’uomo che dormiva, «aspetta che si svegli.»
«Devo andare, mamma. Si tratta della scuola. Don ha una cosa che mi serve.» Prese il polso di sua madre e le sorrise. «Mi serve per domani. Non ti preoccupare, andrà tutto bene.»
«Non lo so. Forse dovresti…»
«Mamma, quell’uomo è morto. Lo ha ammazzato Donald. È morto. Andrà tutto bene, davvero.»
Se ne andò prima che le preghiere si trasformassero in un ordine e fece di corsa i primi cento metri per evitare qualsiasi cambiamento di idea da parte di sua madre. Poi si fermò e si appoggiò contro un albero per respirare profondamente, cercando di scrollarsi di dosso le vertigini che l’avevano assalita. Non c’era molto traffico. Nonostante fossero soltanto le sette, sembrava mezzanotte passata. L’aria sapeva di strano, come se fosse affaticata e si augurasse che il sole si alzasse alla svelta per riscaldarla; il marciapiede era fragile, ricoperto da un sottile strato di ghiaccio che si rompeva sotto i suoi passi; e i lampioni si riflettevano per terra, lanciando riverberi bianchi che la abbagliavano e la costringevano a distogliere lo sguardo.
Faceva freddo; tutto era silenzioso.
Eccetto quel movimento alle sue spalle.
È morto, si disse mentre allungava il passo; è morto, è stato Don ad ammazzarlo e non c’è nessuno qui dietro.
Si voltò di scatto; non c’era nessuno.
Ancora quattro palazzi, poi avrebbe potuto fingere di avere mal di testa così il signor Boyd oppure Don l’avrebbero riaccompagnata a casa.
Che stupida, pensò mentre si avvicinava alla via; stupida, stupida, stupida. Perché non te ne torni a casa e tenti di telefonargli? Che cosa potrai dire, che stavi passando per caso? Passavi per caso da una via che sta a mezzo chilometro di distanza da casa tua? Cristo, Don, mi stavo domandando con chi hai intenzione di andare alla partita domani. Jeff mi ha già domandato di aspettarlo, ma lui capirà se io verrò con te. Stavo solo passando, tutto qui.
Svoltò a sinistra, verso il centro del quartiere, con l’intenzione di girare a destra al prossimo incrocio per evitare dì passare davanti alla scuola.
A metà, sentì di nuovo quel movimento alle sue spalle. E il respiro — pesante, lento, qualcosa di molto più grande di un uomo si stava muovendo alle sue spalle.
Era come a scuola, la stessa cosa che aveva visto nel corridoio al piano di sotto. Lo sapeva senza guardare e, sempre senza guardare, si mise a correre a bocca aperta per respirare meglio, agitando le braccia. Scese dal marciapiede sentendo che continuava a seguirla per la strada.
Ritmico, martellante, tanto somigliante a un cavallo che tentò di voltarsi a dare un’occhiata per assicurarsene, ma non vide nient’altro che un’enorme ombra che si muoveva verso di lei lungo la strada. Un rantolo — è una macchina con i fari spenti, Trace, non fare l’idiota — piagnucolò, si mise a correre più veloce e sentì l’animale — è una macchina! — e aumentò la velocità.
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