Il respiro si condensava sul vetro. Le nuvole si richiusero. Si vedeva solo una luce proveniente da una casa poco più avanti e le ombre degli alberi sull’erba scura.
Se esisti davvero, pensò allora, dove sei? Dove sei?
E non fece nessun movimento quando vide due grandi occhi verdi che si aprivano lentamente e si fissavano su di lui.
Dormì fino a mezzogiorno, senza muoversi, senza sognare, svegliandosi soltanto una volta — quando il dottor Naugle passò da casa per visitare quello che lui chiamava il suo famoso paziente. Una risata leggera e nervosa — sua madre nell’ingresso con un soprabito in mano, come se fosse sul punto di uscire per tornare al lavoro dei festeggiamenti cittadini. Don aveva la mente confusa, scollegata, e a fatica sentì la voce dell’uomo che gli raccomandava di restare un altro giorno a letto per recuperare le forze più psichiche che fisiche.
Joyce si disse d’accordo e Donald non stette a discutere — non gli piaceva la debolezza che si era impossessata dei suoi muscoli, non gli piaceva l’idea di quello che sarebbe successo a scuola se si fosse fatto vedere barcollante e in cerca di aiuto per andarsene prima della fine delle lezioni.
Non gli piaceva pensare a quello che sarebbe successo se avesse inavvertitamente menzionato il cavallo.
Allora dormì, e questa volta i sogni arrivarono.
Sognò la stanza, le cui pareti si allargavano lentamente finché il suo letto si ritrovava nel mezzo di una caverna di pietra scura piena di gallerie; in una di queste c’era un’ombra, che lo attirava, lo adescava, che chiamava il suo nome senza emettere suoni e che gli ripeteva continuamente che tutto si sarebbe sistemato, alla fine.
Sognò la stanza, e dalle finestre riusciva a vedere il mondo dalla prospettiva di un falco pigro; cambiava e vedeva Ashford, cambiava ancora e vedeva il cavallo che aspettava pazientemente sotto l’acero in giardino, fissando la finestra in attesa del segnale, dicendogli che ormai non doveva avere più paura di niente e di nessuno — avrebbe dovuto solo chiamare e sarebbero arrivati subito i suoi amici.
E sognò ancora la stanza, e sulla sua scrivania si vedevano i resti dell’esplosione del peso che gli tormentava lo stomaco. Si era avvicinato senza toccare terra con i piedi, aveva soffiato sulla polvere biancastra sollevando un tornado, una torre nera che l’aveva circondato prima che riuscisse ad allontanarsi, che si era insinuata dietro i suoi occhi facendogli vedere la folla del concerto, i loro occhi pieni di risate, le loro bocche aperte come quelle di pagliacci, le loro dita che indicavano, le teste che annuivano, i loro ammiccamenti, e i piedi che strusciavano per terra; c’era anche la faccia rossa di Brian Pratt seduto dietro, mentre teneva le mani a cono attorno alla bocca — di’ a tutti che è stato il corvo gigante — e sorrideva con malignità in direzione di Tar Boston che invece aveva sollevato entrambi i medi delle mani — ehi, Paperino! — poi si era girato verso Fleet Robinson, che continuava a fissare stupidamente colui il quale gli aveva rubato la sua vendetta; aveva visto anche la storia di un corvo gigante, raccontata da un pagliaccio vestito con una tuta nera.
Si svegliò alle tre meno dieci, con il viso imperlato di sudore, e si mise a osservare il soffitto dove le ombre si stavano restringendo per la luce già calante del sole.
Norman sedeva nel suo ufficio, senza fare niente di particolare; aspettava che la porta si aprisse da un momento all’altro e che Harry entrasse a riferirgli che lo sciopero degli insegnanti, organizzato per il giorno prima, era stato spostato nel pomeriggio. Ma sembrava che Falcone si fosse reso conto dell’umore del preside, perché se ne stava alla larga, e per questo favore Norman sacrificò mentalmente l’anima di sua moglie a Dio come ringraziamento.
Falcone l’aveva baciata. Di fronte a centinaia di persone, quel figlio di puttana le aveva messo le mani addosso e l’aveva baciata.
«Cristo», esclamò. «Cristo.»
Le telefonate venivano accuratamente selezionate dalle segretarie per cercare di rallegrare un po’ il suo cattivo umore almeno entro la fine dell’ultima lezione. Qualche reporter che veniva da fuori città, qualche membro del consiglio, qualche conoscente che voleva farlo finalmente sorridere.
Subito dopo, chiamò anche il sindaco per suggerire di non perdere più tempo e di incontrarsi per discutere su chi avrebbe potuto sostituirlo. Anthony Garziana stava preparandosi per andare in pensione; aveva diretto Ashford per una decina di anni ed era stanco, non vedeva l’ora che arrivasse il giorno in cui avrebbe potuto impacchettare la sua giovane moglie e la famiglia per andarsene nella sua tenuta sul Golfo del Messico, appena fuori Tampa. Non dava l’impressione del sindaco deputato; gli piaceva lo stile di Boyd e il modo in cui aveva oscurato il grande giorno di Don con qualcosa di suo. Ci vuole del fegato, aveva detto Garziana; Don, gli aveva detto Norman, avrà una medaglia e potrà essere generoso.
Splendido, pensò, e si alzò per stirarsi le gambe. Cristo, aspetta che lo venga a sapere Joyce. Diventerà isterica; rifarà l’arredamento della casa del sindaco prima della fine dell’anno.
Sorrise e decise di andare a fare una passeggiata attorno alla scuola, uscì dalla porta privata e si scontrò quasi immediatamente con Tracey Quintero. Farfugliò qualche scusa, lui la prese per una spalla, la fece calmare e le disse sottovoce quanto fosse orgoglioso di lei.
Tracey si agitò. «Io? Non ho fatto niente.» «Hai chiamato la polizia quella notte … quella notte.» Le si rabbuiò il viso. «Ma l’ho fatto troppo tardi.» «Ma hai fatto paura a quell’uomo, Tracey, gli hai messo paura. L’hai costretto a commettere un errore e ha pagato per questo. E molti di noi ti sono riconoscenti per questo.»
L’espressione della ragazza si fece per un attimo dubbiosa. Arrossì timidamente e poi proseguì, lisciandosi con le mani la camicetta sullo stomaco e sui fianchi per l’imbarazzo, fino alla toilette per le ragazze.
Era sola. Si fermò davanti allo specchio che copriva tutta la parete e si controllò i capelli e la figura, poi aprì il rubinetto dell’acqua fredda per farla scorrere sui polsi. Avrebbe dovuto essere a zoologia, ma aveva la mente un po’ offuscata e aveva chiesto il permesso di uscire; sarebbe rientrata dopo aver controllato le sue condizioni. Era stupido, ma così stavano le cose, e dopo lo strano scontro con il padre di Don si era sentita ancora più confusa.
La notte prima avrebbe voluto restare nel parco anche dopo il concerto, ma suo padre aveva insistito perché tornasse a casa con lui. Era imbarazzato da tutta l’attenzione di cui era stato fatto oggetto e aveva insistito perché anche Thomas Verona ricevesse i suoi complimenti. Nessuno l’aveva ascoltato. Era stato Luis ad arrivare sul luogo, mentre Verona rimaneva in macchina; era stato Luis a scoprire quello che aveva fatto Donald.
La notte della morte dello Squartatore, lei gli aveva domandato che cosa aveva visto. Giravano delle chiacchiere, e non c’era assolutamente la possibilità di trovare libera la linea telefonica dei Boyd. Voleva sapere. Lui non aveva detto niente. Le aveva ricordato con crudeltà che al posto di Amanda avrebbe potuto esserci lei se avesse inciampato, o se si fosse voltata per usare il tubo che stava portando; avrebbe potuto essere lei quella per cui la scuola era rimasta chiusa. Lui si era infuriato, ma si era anche commosso.
Lei non gli aveva creduto.
Persino in quel momento, mentre stava aggiustandosi i vestiti che comunque stavano bene com’erano, non riusciva a immaginarsi Don che picchiava un uomo a morte, non nel modo in cui suo padre gliel’aveva raccontato. Un colpo in testa, sì; un bel colpo o due sulla tempia, certo; ma non in modo da frantumare letteralmente quell’uomo. E quando aveva sentito parlare in televisione di ondate di adrenalina e di rabbia isterica, ancora non era riuscita a crederci. Avrebbe dovuto pensare a Don come a qualcuno che non conosceva.
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