Don aveva annuito, evitando discussioni; si sentiva come avvolto da una nube soporifera e faceva fatica a tenere gli occhi aperti e a sorridere continuamente a tutti. A un certo punto, quando stava cominciando a pensare di passare in mezzo alla folla e di tornare a casa da solo, incrociò lo sguardo di Chris che passeggiava in compagnia di un robusto signore dal viso florido che avrebbe potuto essere suo padre. Gli sorrise per prima, lui accennò un’espressione dolorosa, facendole capire con un gesto della testa che era intrappolato e che non riusciva a tornare a casa. Lei gli sorrise, mimando il gesto di un cappio attorno al collo, con gli occhi fissi e la lingua penzoloni, e proseguì nel cammino, guardandosi solo una volta alle spalle. Poi la folla la inghiottì.
Infine, quando cominciò a sentire un ronzio alle orecchie, si decise ad alzarsi e a tirare il braccio a suo padre. Norman cercò di farlo smettere senza nemmeno guardarlo, poi si voltò e si accorse dell’espressione del ragazzo. Un sorriso, una stretta di mano, e Don si sentì trasportato verso sua madre. Il sindaco se n’era andato da un pezzo, al suo posto c’era una manciata di persone, tra cui Harry Falcone.
«Joyce», disse Norman, facendo un brusco cenno in direzione dell’insegnante, «dobbiamo tornare a casa.»
Lei si rifiutò e gli altri si lamentarono con lui per il suo comportamento asociale, finché la tirò per il braccio e le indicò Don. «Oh, Dio, scusatemi», disse lei, cominciando a salutare tutti senza fare altre obiezioni. Falcone strinse la mano a Don in segno di congratulazioni e anche a Norman per solidarietà, e diede un bacio a Joyce appoggiandole le mani sulle spalle.
Nella station wagon Joyce si levò le scarpe ed emise un rumoroso sospiro. «Accidenti, ma li hai visti ? » esclamò, mentre si allontanavano dal marciapiede. «Cristo, mi hanno quasi staccato le mani.»
«E che cosa ne è stato degli altri membri del comitato?» domandò Norman, prendendo una curva troppo velocemente e facendo stridere le ruote. Frenò bruscamente e mandò la moglie quasi a sbattere contro il vetro.
«Diavolo, anche loro hanno avuto la loro parte di gloria, non ti preoccupare», rispose lei. «Dio, ma una donna non può avere un momento di grandezza in questa città?»
«Hai fatto un buon lavoro, mamma», disse Don frettolosamente dal sedile posteriore, mentre si teneva a fianco la sua medaglia nella scatola ancora chiusa.
«Grazie, tesoro.»
«Ha ragione», approvò Norman, con un’esagerata dimostrazione di buon umore. «Un gran lavoro, signora Boyd. Se vuoi diventare sindaco, io voglio il posto di accalappiacani.»
«L’avrai», promise lei.
«Hai fatto un grande lavoro.»
Cinque minuti dopo imboccarono il vialetto di casa con il vento che li spingeva contro la porta; soffiava lungo la strada sollevando un polverone di foglie e terriccio, agitando gli alberi, facendo sbattere rumorosamente le persiane. Una lattina rotolò verso il tombino, un cane ululò e da qualche parte, oltre l’angolo della strada, qualcuno sbatté una finestra.
Entrarono spingendosi a vicenda nell’ingresso e si avviarono in cucina, mentre Joyce proponeva di lasciar perdere il caffè in favore di un bicchierino di brandy.
«Che tempismo», urlò dal ripostiglio, mentre Norman preparava tre bicchieri. Fece capolino dalle tendine della porta posteriore e in punta di piedi porse la bottiglia a suo marito che incominciò a servire. «Fantastico! Un solo saluto in più e saremmo annegati.»
Don fu sul punto di dirle che non stava ancora piovendo quando sentì gli scrosci portati da un turbine di vento, che colpivano le finestre e l’erba del giardino. Sarebbe stato un acquazzone veloce, ma aveva ragione — il tempismo era stato perfetto, doveva avere una divinità che la proteggeva. Poi sussultò quando suo padre gli porse il bicchiere tiepido.
«Fa’ pure», disse Norman, ridendo per l’espressione di sorpresa. «È un’occasione speciale. Non sto cercando di corromperti.» Si schiarì la gola e proseguì dicendo: «Credo … a noi».
«Giusto», approvò Joyce sorridendo e vuotò il bicchiere tutto d’un fiato.
Don fu più prudente, annusò il liquore arricciando il naso e poi lo ingoiò a fatica nonostante il bruciore che sentì subito dopo il primo sorso. Non riusciva a capire perché stessero brindando, ma non aveva intenzione di rovinare tutto, rifiutandosi di bere; quando alla fine riuscì a svuotare il bicchiere, il fuoco nel suo stomaco si era ridotto a piccoli tizzoni ardenti che lo avrebbero tenuto al caldo fino all’alba.
Sbadigliò.
Squillò il telefono e Joyce andò a rispondere; indicò con il pollice che la chiamata era per lei e sparì in salotto. Don sbadigliò di nuovo mentre fuori la pioggia si calmava e Norman si riempiva un altro bicchiere.
«Faresti meglio ad andare a letto», gli suggerì suo padre, mentre si toglieva le scarpe e metteva i piedi sul tavolo. «Domani hai la scuola.»
«Caspita, non mi merito nemmeno un giorno di vacanza per quello che ho fatto?» Si costrinse a ridere, per dimostrare che si trattava di uno scherzo. «E poi il dottor Naugle ha detto che mi devo riposare, ricordi?»
Stranamente, suo padre prese in considerazione l’idea e rispose che ne avrebbero riparlato l’indomani. Non fece altri tentativi; si diresse subito verso le scale, lanciò un bacio a sua madre che gli rispose con espressione assente e corse di sopra a due gradini alla volta, si precipitò in camera e si lasciò cadere sul letto.
Teneva ancora in mano la scatola di velluto. Accese la luce sul comodino, salutò la pantera che si stava ancora leccando la zampa e aprì il coperchio.
«Dio!», esclamò. «Cristo santo.»
Era grande quanto il palmo della sua mano, in oro pesante, con la scritta in rilievo: Per Servizio Pubblico, a Donald Boyd. La lesse ad alta voce agli amici che lo circondavano e poi appoggiò la scatola sulla scrivania. Evitando di proposito di guardare la parete, si voltò e si sbottonò la camicia, si levò le scarpe e i pantaloni e rimboccò il copriletto. Sentiva il poster alle sue spalle, ne percepiva la vuotezza, la nebbia, il peso degli alberi.
Quando spense la luce, percepì il buio alla finestra.
Sbadigliò talmente forte da farsi male alle mascelle; si stirò con tanta violenza da far dolorare i muscoli delle gambe; chiuse gli occhi, si girò su un fianco e abbracciò il cuscino; sospirò augurandosi che il sonno arrivasse alla svelta, si mise supino e sentì la federa del cuscino battere fredda contro la guancia. I piedi inciampavano nelle lenzuola.
La coperta era troppo pesante; ma il lenzuolo da solo non era sufficiente.
Andò nel bagno per lavare via il sapore di brandy dalla bocca.
Rimase fermo sul pianerottolo ad ascoltare i genitori che conversavano in cucina; rimase per una mezz’oretta e non sentì mai menzionare il suo nome.
«È l’ora di andare», mormorò, mentre tornava nella sua stanza. «Bel lavoro, ragazzo, siamo davvero orgogliosi di te, lo sai.»
La lampada era ancora spenta. Si diresse alla finestra, dove rimase a osservare il vento che soffiava tra le case, mentre la luna, di tanto in tanto, riusciva a far capolino tra gli squarci delle nuvole.
Mi dispiace, vero? domandò al cielo notturno. La mamma ha lavorato duramente per questo; non vuole che io le rubi l’attenzione.
Ma era solo un palliativo, un tentativo di comprensione, lui lo sapeva, lo sapeva bene che doveva sentirsi anche peggio. Ma non ci riusciva. Si sentiva come se qualcosa gli fosse stato portato via prima che lui ci riuscisse da solo, come se qualcosa di unicamente suo si fosse perso nel momento in cui aveva sentito la voce di Brian che si levava dal parco.
Irrigidì la mano destra e con le dita andò ad accarezzare la testa della lince rossa; poi più in alto, fino a sfiorare il leopardo.
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