Charles Grant - La carezza della paura

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La carezza della paura: краткое содержание, описание и аннотация

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Quale sarà la prossima vittima dello squartatore, il mostro del New Jersey? Il timido Donald Boyd, capace di parlare solo con creature immaginarie di sua invenzione, assalito dal mostro, viene salvato da uno stallone nero che da allora lo difenderà sempre, apparendo dal nulla. Per Donald è la lotta contro una nuova inspiegabile ossessione.

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«Oddio», mormorò Don. «Ascolta, devo venirci per forza?»

«Te la senti?»

«Non lo so.»

«Be’, se non te la senti, ti capiamo.» Si mise una mano sotto il mento. «In ogni modo, sarebbe carino. Ci sarà un sacco di gente che ti è grata per quello che hai fatto ieri notte.» Intrecciò le dita delle due mani. «Sai», continuò in tono pensieroso, «per essere sincero, non avrei mai pensato che tu potessi fare una cosa del genere.» Lo fissò per evitare che rispondesse. «Mi hai fatto morire di paura, ragazzo mio. Non farlo mai più.»

«Mi spiace, papà.»

Si alzò, cercando di scacciare un senso di vertigine, e guardò Norman che si tirava su a fatica dalla sedia. Rimasero uno di fronte all’altro per parecchi secondi; Don si aspettava un abbraccio.

«Le patate», disse Norman, con una risata imbarazzata. «Altrimenti tua madre mi scortica vivo. Dai, vieni a darmi una mano.»

Don lo seguì nel corridoio, ma svoltò verso le scale invece di continuare verso la cucina. Quando suo padre si girò, gli spiegò: «Devo darmi una ripulita, papà.» Arricciò il naso. «Puzzo di disinfettante, non senti? Scenderò per l’ora di cena, non preoccuparti, voglio solo…»

Fece un gesto vago in direzione del secondo piano e Norman annuì, gli fece un grande sorriso e se andò fischiettando.

Sono preoccupati per te, disse a se stesso salendo lentamente le scale; ma sono orgogliosi di te, lo sono davvero.

Ebbe un attimo di esitazione sul pianerottolo, poi entrò nella sua stanza e si fermò. Rimase senza fiato. Si appoggiò allo stipite e si rese conto che stava battendo i denti.

«Dopo essere stata da te, questa mattina, sono andata su in solaio», spiegò Joyce dietro di lui, con un filo di voce.

Lui non si mise a saltare. Si limitò ad annuire. Poi iniziò a camminare lentamente con una smorfia sul viso, salutando silenziosamente i suoi animali che erano tornati al loro posto, sullo scaffale, salutò la pantera appesa al muro dietro al letto, e gli elefanti, tornati di nuovo ai lati della porta. C’era un po’ di polvere sulla lince e il falco era coperto di ragnatele, ma a lui non importava niente: l’importante era che i suoi animali fossero ritornati al loro posto.

«Don, mi dispiace.»

Non era entrata, era rimasta nel corridoio, come se aspettasse di essere invitata. Lui si girò e le sorrise, poi abbassò la testa e alzò le spalle. Lei era in attesa e rigirava fra le mani la spazzola per i capelli, aspettando una sua reazione, e la sua assoluzione.

Alla fine Don guardò la scrivania, e poi lo spazio vuoto al di sopra di essa.

«Dov’è?» chiese, con un tono più aspro di quello che avrebbe realmente voluto usare. «Anche lì sopra c’era un poster. Mamma, dov’è?»

«Che cosa?» Joyce entrò nella camera, osservò e annuì. «Oh, be’, non ero molto sicura di quello, così l’ho tolto e l’ho messo nell’armadio in corridoio. Se vuoi vado a prendertelo.»

«Ma perché?» disse in tono lamentoso, mentre sua madre si avviava verso il corridoio.

Lei si fermò, ritornò indietro e gesticolò con un braccio nell’aria. «Be’, sai, con tutti quegli animali e quelle cose strane in giro, be’ … non pensavo che ti interessasse un manifesto che raffigura soltanto degli alberi.»

12

Fu una cena piuttosto affrettata. Joyce trascorse più tempo a gesticolare e a blaterare che a mangiare. Norman perse la pazienza più di una volta nel tentativo di mantenersi controllato e Don spazzolò tutto quanto aveva nel piatto, fece il bis e prese in considerazione anche una terza porzione per vedere di calmare il vorace appetito che si era impossessato di lui. Eppure continuava ad avere acidità di stomaco e il suo tic si rifiutava di lasciare in pace l’angolo dell’occhio sinistro. Era il nervoso, pensò, per l’ansia sempre crescente di sua madre, che sfiorava l’isteria, per l’imminente cerimonia di apertura delle festività di quella sera al parco, e per l’irascibilità di suo padre. Più si avvicinava l’ora di uscire, più Norman si faceva scorbutico, finché Don decise di scusarsi e si precipitò di sopra a cambiarsi.

Si chiuse la porta alle spalle, accese la luce e si costrinse a guardare il poster che aveva tolto dall’armadio e rimesso al suo posto.

Il cavallo al galoppo era sparito.

Lo guardò soltanto una volta. Riusciva solo a immaginarselo mentre correva attraverso il prato, con gli occhi verdi scintillanti, in direzione di Falwick, come lui stesso gli aveva comandato.

Andò alla finestra e vide soltanto il buio.

«Don», lo chiamò sua madre mentre passava davanti alla sua porta. «Sbrigati, tesoro, altrimenti faremo tardi.»

Le dita si rifiutavano di allacciare i bottoni, di chiudere le scarpe, di pettinare i capelli; gli tremavano le labbra mentre tentava di scrollarsi di dosso una sensazione di gelo invernale che gli aveva paralizzato le braccia, ormai incapaci di svolgere qualsiasi lavoro; gli bruciavano gli occhi per la polvere che mandava stilettate di fuoco bianco al cervello, un fuoco vorticoso che si mescolava fino a formare la figura infiammata di un cavallo.

Corse nel bagno per svuotare lo stomaco di quanto aveva mangiato.

Inginocchiato sul pavimento, con le mani aggrappate ai lati del water, sentì Joyce che si lamentava a proposito di qualche macchia che le aveva rovinato il vestito, sentì Norman che si lagnava dei fotografi che sicuramente l’avrebbero fatto apparire come un cadavere per via del vestito nero che lei gli aveva consigliato.

Un ulteriore rigurgito di bile prima di piangere lacrime amare annaspando alla ricerca dell’aria, poi Don tirò lo sciacquone e prese un asciugamano. Inumidì la spugna sotto il rubinetto, strizzò l’asciugamano e se lo gettò sulla faccia. La camicia era bagnata, ma lo choc era stato un sollievo; aveva la gola infiammata, ma quando si alzò in piedi per bere un po’ d’acqua non ottenne la reazione che si sarebbe aspettata. L’acqua scivolò giù senza difficoltà e allora sorrise alla propria immagine riflessa con aria sardonica, mentre gli gocciolavano i capelli e il viso e gli occhi si stavano arrossando.

«Grande eroe», mormorò. «Assomigli a Tar dopo tre giorni di ubriacature.»

Si asciugò rapidamente, si lavò i denti e si pettinò i capelli; tornò in camera per cambiarsi camicia e pantaloni, trovò una giacca sportiva che avrebbe potuto indossare e si precipitò al piano di sotto, dove si mise ad aspettare nel salotto guardando fuori dalla finestra.

La strada era buia e una leggera brezza faceva oscillare le ultime foglie rimaste sugli alberi. Passò una coppia abbracciata che però non indossava cappotti pesanti.

Il signor Delfield, dall’altra parte della strada, stava litigando con il suo bassotto che non voleva farsi mettere al guinzaglio e che, liberandosi dal collare, fece perdere l’equilibrio al pover’uomo. Questi si mise a inseguirlo agitando un pugno mentre con l’altra mano sbatteva nervosamente il guinzaglio sul marciapiede. Passò la convertibile rossa, decappottata e con la radio ad alto volume. Il vento soffiava a raffiche, una ghianda rotolò sul vialetto e finì nell’oscurità.

Dove sei? pensò, sentendo il freddo che filtrava dal vetro.

Non ci fu risposta e non aveva più tempo per rifare la domanda. Joyce era nell’ingresso e faceva tintinnare le chiavi mentre chiamava Norman e diceva a Don di lasciare una luce accesa in modo da non rompersi una gamba quando fossero rientrati, mentre si domandava ad alta voce che cosa avesse dimenticato, che cosa potesse andare storto, che cosa avrebbe pensato la gente se i festeggiamenti fossero iniziati con un tonfo invece che con un fuoco d’artificio.

Don seguì i genitori in giardino, dove respirò a pieni polmoni, vide il signor Delfield precipitarsi in casa tenendo in braccio il suo cagnolino scodinzolante e andò a sedersi sul sedile posteriore senza fretta.

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