Charles Grant - La carezza della paura

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Quale sarà la prossima vittima dello squartatore, il mostro del New Jersey? Il timido Donald Boyd, capace di parlare solo con creature immaginarie di sua invenzione, assalito dal mostro, viene salvato da uno stallone nero che da allora lo difenderà sempre, apparendo dal nulla. Per Donald è la lotta contro una nuova inspiegabile ossessione.

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Don rimase scioccato — suo padre aveva pianto.

«Accidenti», disse con troppa impazienza. «Ho tanta sete che mi berrei un lago intero.»

Norman afferrò con entusiasmo la brocca dell’acqua appoggiata sul comodino, versò un bicchiere, poi un altro.

«Come ti senti?»

«Malissimo. No, solo male.» Fece un piccolo movimento e sentì il livido sulla coscia e una fitta dolorosa nel punto in cui lo Squartatore lo aveva colpito con le ginocchia.

Norman si alzò in piedi, andò fino alla porta, poi ritornò indietro. «Immagino che il sergente Verona sarà qui fra pochi minuti. Aspettava che tu … aspettava che ti svegliassi.»

«La polizia?»

Scintille verdi fuoco verde.

«Vogliono sapere cos’è successo.» Era chiaro che anche lui voleva chiederglielo, ma era altrettanto evidente che aveva paura. «Anche i giornalisti.»

Don girò la testa per fissare il soffitto. «I giornalisti.»

«Be’, ragazzo mio, sei diventato un eroe. L’hanno già detto alla radio.»

Ebbe paura, e insieme freddo. «Papà, ascolta, io devo…»

La porta si spalancò ed entrò Verona. Aveva la giacca sgualcita, non portava la cravatta e dal gomito gli pendeva un filo d’erba bagnata. Joyce era dietro di lui e si mise a protestare quando l’uomo invitò i genitori a lasciarlo solo con il ragazzo. Norm la prese per un braccio; lei lo fissò, poi lanciò un bacio a Don e uscì. Chiusero la porta senza fare rumore. La luce della finestra si fece più luminosa.

Ebbe di nuovo paura, ma si calmò quando Verona gli strinse la mano con affetto, prima di sedersi.

«Questo», disse, indicando con la testa le loro mani unite, «è per adesso. Probabilmente più tardi inizierò a maledirti per quello che hai fatto, e continuerò a farlo fino a domenica. Non che tu mi sia antipatico», aggiunse, con un sorriso storto, «ma i giornali si chiederanno come mai un ragazzino è riuscito a eliminare lo Squartatore, quando le polizie di due stati non erano riuscite a trovare nemmeno una piccola traccia.»

Don si strinse nelle spalle e il suo stomaco si lamentò.

c’era sangue, tanto sangue, e il rumore di zoccoli al galoppo

«Allora, vuoi raccontarmi cosa è successo?»

Diglielo, pensò Don; e gli raccontò che non riusciva a dormire, allora era uscito a fare due passi, poi si era ritrovato nel parco. Lì l’uomo lo aveva preso, e da lì era riuscito a fuggire.

Verona non prendeva appunti, e non aveva nemmeno un registratore. Annuiva. Ascoltava. Gli fece qualche altra domanda, e nel frattempo gli spiegò che cosa voleva sapere.

Era lo Squartatore. Quel vecchio brizzolato era lo stesso uomo che aveva ucciso Amanda. I campioni di tessuto prelevati dal corpo erano uguali a quelli trovati sotto le unghie della ragazza; si chiamava Falwick, era un ex sergente dell’esercito che evidentemente non era riuscito a integrarsi nel sistema. Erano riusciti a ricostruire la maggior parte dei movimenti di Don, ma lui aveva ancora qualche dubbio. Non sarebbe stato piacevole rievocare quei momenti, Verona lo sapeva bene, e si asciugò il viso con un fazzoletto, nascondendo per un attimo gli occhi, ma dovevano sapere. Solo un paio di cose. Poi lo avrebbe lasciato solo, a godersi il meritato riposo. Avrebbe anche tenuto lontano i giornalisti per un po’. Ma perché aveva colpito quell’uomo con tanta violenza? Perché così selvaggiamente?

Don non lo sapeva. «Avevo paura. Stava per uccidermi.»

Verona fece schioccare la lingua. Jerry Naugle, il dottore di Don, aveva supposto che si trattasse di una difesa prodotta da una forma di isteria: una cosa abbastanza comune. Invece di scappare, Don aveva trovato un bastone e l’aveva usato per difendersi. Conosceva Amanda. Paura e rabbia, e forse anche un po’ di fortuna, e Falwick era caduto a terra. È quando l’isteria ha il sopravvento. L’adrenalina la alimenta. Luis Quintero era arrivato sulla scena dell’incidente, lungo la strada, e aveva sentito qualcuno gridare nel parco. Aveva trovato Don in ginocchio a pochi metri dal corpo, con il bastone ancora in mano; c’era sangue sul bastone e sugli abiti del ragazzo. Era profondamente scioccato e non riusciva nemmeno a dire come si chiamava.

«Immagino», disse Don, «sì, immagino sia andata così.»

E poteva essere andata così, pensò. Doveva essere andata così. Se ci fosse stato un cavallo, glielo avrebbero detto; se il cavallo fosse esistito, qualcuno lo avrebbe visto. Doveva essere stato lui, perché si ricordava la rabbia che aveva sentito dentro.

Verona gli strinse di nuovo la mano e gli occhi di Don si riempirono di lacrime quando ritonarono i suoi genitori.

Doveva essere andata così. L’isteria, e lo choc, e forse dopo tutto non era pazzo. La sua amica era stata uccisa perché aveva avuto paura, ma Don aveva fatto tutto da solo. Aveva perso i sensi, ma aveva fatto tutto da solo. Niente di magico. Nessuno stallone nero. Aveva ucciso un uomo. E da solo.

Pianse per quasi mezz’ora — prima forte, poi silenziosamente, inzuppando la camicia di sua madre che gli accarezzava i capelli e lo baciava sulla guancia, mentre suo padre gli stringeva le mani così forte da far schioccare le nocche. Pianse fino a quando ritornò il dottor Naugle, che li invitò ad andarsene dalla camera affermando che Don aveva bisogno di riposo se davvero voleva tornare a casa a mangiare qualcosa di decente. Norman era riluttante, ma alla fine uscì; Joyce lo abbracciò di nuovo, mormorando: «Tesoro, so che non sei Sam. Sei il mio Donny, e ti voglio bene».

Senza nessuna pastiglia dormì profondamente fino a dopo mezzogiorno. Quando si svegliò, la flebo era sparita; c’era un’infermiera con un vassoio colmo di cibo che Don mangiò senza sentirne il sapore. Quando ne chiese ancora, la donna sorrise e gli disse che ne avrebbe avuto molto una volta a casa; poi chiese di vedere i suoi genitori, i quali gli dissero che nella sala d’aspetto c’erano molti ragazzi che avevano voglia di vederlo. C’era anche un gruppo di giornalisti. Sembrava — gli spiegò il padre leggermente eccitato — che ci fosse il Presidente in città. Don era felice, ma cercò di non darlo a vedere, imbarazzato dall’immagine dello stallone sempre stampata nella sua testa, e preoccupato perché improvvisamente si era reso conto che l’unica cosa che voleva veramente era andarsene a casa a guardare da vicino il poster sulla parete.

Forse non era pazzo, ma doveva esserne sicuro.

«E vuoi sapere un’altra cosa?» disse sua madre. «Sei pronto? Il sindaco vuole consegnarti una medaglia durante il concerto di stasera. Una medaglia! Ti rendi conto?»

«A me? Una medaglia a me?»

Guardando suo padre, vide che annuiva con orgoglio; sua madre gli diede un altro bacio.

«Non è possibile», disse, conficcando le dita nelle lenzuola. «Mamma, non è possibile.»

«Ne riparleremo più tardi, tesoro, quando saremo a casa», disse lei in fretta e a bassa voce. «Dirò ai ragazzi di salire, io intanto andrò a prenderti dei vestiti puliti.»

scintille verdi

fuoco verde

Don non capì perché Tracey indossasse i jeans e una vecchia giacca, finché non ricordò che la scuola era chiusa per quanto era accaduto ad Amanda. E nemmeno capì perché fosse venuta con Lichter.

Dopo aver scambiato un’occhiata con Jeff, Tracey prese una sedia mentre lui si sedeva sul letto e afferrava la mano di Don.

«Il Povero Recluso ha colpito ancora», disse Jeff con entusiasmo. «Ma ascolta, sei impazzito o che cosa?»

«Chiudi il becco, Jeff», ordinò Tracey con aria gentile, e si sporse in avanti per baciare Don sulla guancia. La sua mano trovò quella di Don e la strinse. «Stai bene?»

«Credo di sì», rispose lui. «Non sono ferito o roba del genere. Tuo padre … Ehi, stai attento», protestò rivolto a Jeff, liberando la mano e sobbalzando, fingendo un dolore inesistente. «Sono cintura nera, non ti ricordi?»

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