Charles Grant - La carezza della paura

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La carezza della paura: краткое содержание, описание и аннотация

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Quale sarà la prossima vittima dello squartatore, il mostro del New Jersey? Il timido Donald Boyd, capace di parlare solo con creature immaginarie di sua invenzione, assalito dal mostro, viene salvato da uno stallone nero che da allora lo difenderà sempre, apparendo dal nulla. Per Donald è la lotta contro una nuova inspiegabile ossessione.

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Lui scrollò le spalle. «Credo di sì.»

«Credi di sì?»

«È che non … Non mi ricordo esattamente com’è andata.»

«Non dici stronzate?»

«Non dico stronzate.»

Fleet si allontanò dal letto e la luce della finestra gettò metà del suo viso in ombra.

«Grazie», disse allora, in tono appena percettibile. «Grazie. Per Mandy.»

Don non seppe cosa rispondere, e nemmeno seppe cosa fare quando Fleet si avvicinò improvvisamente al letto, abbassandosi fin quasi a toccarlo. «Lo volevo prendere io quel bellimbusto, Donny.» Le parole uscirono gutturali. «Volevo essere io a prendere quel fottuto bastardo, capisci?»

Don annuì, temendo che Robinson volesse picchiarlo.

Fleet fece un cenno con il capo, come se finalmente fosse riuscito a chiarire un punto importante, poi si raddrizzò e uscì senza dire una parola.

Entrò il dottor Naugle, seguito da Joyce e Norman. Prima che lui potesse dire una sola parola, la stanza si riempì di giornalisti. Erano piuttosto calmi, ma volevano conoscere i particolari, sembrava che si fossero messi d’accordo per fare domande a rotazione. Fece del suo meglio, aiutato un po’ dal padre, seduto al suo fianco, e dalla madre, seduta dall’altra parte; cercò anche di non chiudere gli occhi di fronte ai flash e di non perdere la pazienza quando uno dei giornalisti insinuò con disinvoltura che la storia raccontata da Brian era molto più simile alla realtà dei fatti di quanto non lo fosse la versione della polizia; fece qualche battuta su se stesso che fu accolta da sorrisi gentili, e fu con gentilezza che rifiutò l’invito di un fotografo ad afferrare una mazza a mo’ di randello; una giornalista gli chiese dei suoi rapporti con le ragazze e della sua passione per la corsa; e quando qualcuno gli chiese cosa ne pensava della medaglia, rispose con voce tranquilla che ne era felice, ma non pensava di meritarla.

Se ne andarono senza protestare quando il dottor Naugle disse loro che il tempo era scaduto. I suoi genitori lo lasciarono solo affinché si vestisse con gli abiti che gli avevano portato.

Mentre si stava infilando la camicia, ritornò l’infermiera con una sedia a rotelle.

«Devo usarla per forza?» chiese, indicandola con una mano, mentre si tirava su la cerniera dei pantaloni e allacciava la cintura. «Posso camminare.»

«Se non la usi, ti dovrò portare in braccio.»

Lui fece una smorfia e si sedette.

All’ingresso dell’ospedale gli fecero altre fotografie, poi ancora mentre saliva in macchina e mentre la macchina si allontanava lentamente dal marciapiede. Voleva che suo padre si sbrigasse; non voleva credere che il sorriso sul suo volto fosse dedicato ad altri che a lui.

Quando arrivarono a casa, trovarono una macchina della polizia lungo il marciapiede e, vicino a questa, il sergente Quintero. Aprì la porta a Joyce e prese Don per mano mentre scendeva dall’auto. Era una situazione imbarazzante perché sapeva che quell’uomo voleva parlargli dello Squartatore e anche di Tracey; fu salvato da Joyce che lo spinse velocemente dentro casa, invitando il poliziotto a ritornare un’altra volta per una tazza di caffè. Appena entrato guardò la tromba delle scale, poi lasciò che lo portassero in salotto per distenderlo sul divano. Tutto quel trambusto per lui lo divertiva, ma non lo interessava molto; con sorrisi di scuse i suoi genitori lo lasciarono solo.

Si guardò attorno, pensando che le cose dovessero essere diverse, poi si rese conto con un sussulto che non era stato via nemmeno un giorno intero. Questo lo turbò. Il tempo non avrebbe dovuto dilatarsi così tanto, non avrebbe dovuto essere così pieno, ma nonostante questo, la sedia di suo padre era sempre allo stesso posto, e c’era una tazza vuota sul pavimento, c’erano dei dépliant sul divano e delle riviste sul tavolo. Non era cambiato niente, ma improvvisamente si convinse che questa volta le cose sarebbero dovute cambiare, in un modo o nell’altro.

Ritornarono con del caffè fumante e con una lattina per lui. Fece una smorfia mentre suo padre si lasciava cadere pesantemente sulla sedia, togliendosi le scarpe e agitandosi quando sua madre gettò a terra i dépliant e si inginocchiò sul cuscino di fianco a lui. Lei continuava a guardare l’orologio.

«Bene!» esplose Norman, bevendo un sorso di caffè.

Joyce lo abbracciò, dandogli un’occhiata maliziosa.

«Allora, ragazzo mio, stai bene?» chiese Norman con aria solenne. «Cioè, stai bene davvero?»

«Credo di sì», rispose lui in tutta sincerità. «Forse sono un po’ scosso, però credo di star bene.»

«Bene», disse sua madre, ritornando nel suo angolo. Poi apparvero le lacrime. «Dio mio, ho avuto tanta paura!»

«Abbiamo avuto tanta paura», le fece eco suo padre, mentre Don allungava una mano per toccare la gamba di Joyce. «Quando abbiamo scoperto che te ne eri andato, abbiamo avuto una paura folle che ti fosse successo qualcosa.»

Il tono nella voce dell’uomo lo fece girare. «Oh», disse alla fine. «Oh, merda!»

«Esatto», continuò Norman severamente, ma con un pizzico di gentilezza. «Mi ero alzato a prendere un bicchier d’acqua e ho visto la porta della tua camera aperta. Tu non c’eri, Donald. Era quasi mezzanotte e tu non c’eri. Non puoi immaginare quello che abbiamo provato.»

«Eri scappato», continuò sua madre. «Cioè, questo è quello che abbiamo pensato — che eri scappato, o qualcosa del genere.» Aveva un sorriso forzato e la risata scoppiò inaspettata. «Sai che stavo per chiamare la polizia?»

«Non riuscivo a immaginare», continuò Norman fermamente, «dove potessi essere. Abbiamo preso la macchina e siamo usciti a cercarti. Abbiamo perlustrato tutto il quartiere, cercando di capire che cosa diavolo avessi in mente di farci, perché mai avessi fatto una cosa tanto stupida.»

Don deglutì. «Non riuscivo a dormire», cercò di spiegare. «Ero uscito a fare due passi.»

«Senza dirci niente?»

«Stavate dormendo, non volevo svegliarvi.»

«Hai fatto diventare matta tua madre, lo sai questo, vero?»

Io sono un eroe, pensò allora, non te lo ricordi?

Norman si lasciò cadere indietro sulla sedia e si coprì il viso con le mani, si fregò la fronte, si agitò, poi scosse la testa. «Avrebbe potuto ucciderti.»

Joyce iniziò a piangere.

«Ma papà…»

«Dannazione, avrebbe potuto ucciderti!» ripeté Norman, con le mani appoggiate ai braccioli. «Avrebbero potuto chiamarci nel cuore della notte, e noi avremmo dovuto dire alla polizia che non sapevamo nemmeno che tu fossi fuori. A casa nostra, nostro figlio, e non sapevamo nemmeno che fossi fuori! Cristo, Don, prova a farlo un’altra volta e ti spacco la testa!»

Don si sforzò di capire — erano impazziti perché temevano per la sua salute, avevano paura perché era loro figlio; eppure non riuscì a trattenere una certa rabbia nel vedere l’espressione del viso di suo padre: uno sguardo duro e assassino, privo di qualsiasi traccia di compassione o di sollievo. Lanciò un’occhiata a sua madre — si stava asciugando la faccia con il dorso delle mani, sorridendo coraggiosamente per dimostrargli che suo padre aveva ragione, e che questa era la reazione a posteriori.

Poi i suoi occhi scorsero le lancette dell’orologio sopra il camino: si alzò battendogli affettuosamente una gamba. «Devo preparare la cena», annunciò. «Mancano solo due ore al concerto e … oh, santo cielo, non ce la farò mai a prepararmi. Mai. Norm, ti spiacerebbe pelare le patate? Devo iniziare a…» Fece un passo verso suo marito, poi guardò di nuovo l’orologio e uscì di corsa dalla stanza. «Santo cielo!» gridò. «Ti prego, solo tre o quattro!»

Norman rise con indulgenza e strizzò l’occhio a suo figlio. «Questa è una grande sera per lei», disse. «Lo è per tutti noi.»

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