Charles Grant - La carezza della paura

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La carezza della paura: краткое содержание, описание и аннотация

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Quale sarà la prossima vittima dello squartatore, il mostro del New Jersey? Il timido Donald Boyd, capace di parlare solo con creature immaginarie di sua invenzione, assalito dal mostro, viene salvato da uno stallone nero che da allora lo difenderà sempre, apparendo dal nulla. Per Donald è la lotta contro una nuova inspiegabile ossessione.

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Si irrigidì, in attesa del colpo.

Alzò lo sguardo, aveva le guance coperte di erba e di fango, e vide lo Squartatore in piedi sopra di lui, con le mani sui fianchi.

«Fatto, moccioso?»

Si piegò, storse le labbra, e sentì la sua bocca aprirsi lentamente.

«Piccolo bastardo.»

Lo Squartatore guardò il cielo, la luna, poi alzò la testa come se stesse ascoltando delle istruzioni provenienti dalla notte. Quindi si abbassò per afferrargli la giacca e Don sgusciò via, agitandosi fino a quando si ritrovò a camminare all’indietro sul sedere.

«Cristo», bofonchiò lo Squartatore, avvicinandosi di nuovo e rimanendo immobile.

Gli occhi del ragazzo erano spalancati per il terrore, ma non stavano guardando l’uomo.

Falwick sbuffò, si avvicinò e rimase immobile quando lo udì dietro di sé.

Ferro contro ferro. Sordo. Lento.

«Cosa cazzo è?»

Don sentì che le labbra iniziavano a tremargli, avvertì il freddo che dalla terra risaliva lungo i suoi vestiti e gli entrava nelle ossa, ma non riuscì a scappare dall’uomo che nel frattempo si era girato, né riuscì a vedere qualcosa che potesse dimostrargli che non era pazzo del tutto.

Ferro contro ferro.

Pietre su un tronco cavo.

Legno contro legno.

Gli zoccoli di un cavallo nero che galoppava leggero sul terreno.

Falwick scosse la testa, si sfregò gli occhi, scosse di nuovo la testa e alzò le mani. «Che cosa diavolo è?»

Lo stallone era sul lato opposto del campo, più ombra che materia, con i fianchi neri scintillanti, la criniera immobile nonostante il vento che soffiava sotto la luce della luna. Si muoveva senza muovere la testa, scintillante lungo il tracciato del campo, attraverso il monte del lanciatore, sull’erba. E poi si fermò.

Falwick cercò di guardare più in là, per vedere dov’era il padrone e sapere se avrebbe dovuto uccidere di nuovo quella notte; Don si trasse indietro: non osava sperare che fosse vero.

«Va’ a farti fottere!» disse allora Falwick, girandosi verso la sua preda con una smorfia.

Il cavallo sbuffò e scalpitò.

Falwick si guardò alle spalle e Don vide il sangue colare da quel viso sporco.

Il cavallo riprese a muoversi, più lentamente; era grande una volta e mezzo qualsiasi cavallo Don avesse mai visto. I muscoli guizzavano e si flettevano come onde nere sopra una distesa di acqua nera; la coda era arcuata e nervosa, il ciuffo spuntava nero fra le orecchie che si tendevano piatte ai lati della testa imponente; e gli occhi erano grandi e obliqui, di un verde scuro brillante.

«Tu?» mormorò il ragazzo.

L’animale si fermò e lo guardò, e lui vide con la coda dell’occhio che lo Squartatore indietreggiava.

«Tu?»

Il cavallo aspettava.

Don guardò Tanker Falwick, chiuse gli occhi e vide Amanda.

Potrei essere un eroe, pensò, ma chi mi crederebbe?

Chiuse gli occhi con più forza e vide la sua stanza vuota, udì sua madre che chiamava Sam, udì suo padre che gli dava del bugiardo. Gli insegnanti lo punivano. Tracey non chiamava più. Brian e Tar e Fleet e tutti gli altri. Dietro le palpebre, i colori dell’arcobaleno pungevano come aghi spuntati; sembrava che il suo occhio nero sanguinasse dagli angoli; poi vide se stesso sull’erba del parco, con gli occhi aperti e ciechi, la gola lacerata e sanguinante.

Il cavallo aspettava.

Riaprì gli occhi, il bruciore se ne andò, le immagini se ne andarono, ma l’animale era sempre lì.

Sono pazzo, pensò; e all’improvviso qualcosa nel petto iniziò ad allargarsi, a esplodere … e non sentì assolutamente nulla.

«Sì», disse con tono risoluto. «Sì. Fallo.»

L’animale attese ancora un attimo, poi si diresse verso lo Squartatore, con lo sguardo fisso sul petto dell’uomo, le zampe sempre più in alto, e sempre più pesanti nel ricadere. Gli zoccoli facevano sprizzare scintille verdi dalla terra.

Quando arrivò a circa dieci metri, Falwick gemette per il terrore e si girò di scatto verso sinistra, fuggendo fra gli alberi; lo stallone si alzò contro la luna, con le zampe anteriori furibonde, la criniera gonfia e il vapore che usciva come fumo nero dalle narici.

Poi si abbatté.

La terra era silenziosa, a eccezione del rumore delle scarpe dello Squartatore: silenziosa, a eccezione delle scintille che si sprigionavano nell’oscurità, scintille verdi che lasciavano la scia e morivano prima di toccare il suolo.

Don rotolò sulle ginocchia, stringendo inconsciamente con la mano destra il ramo che aveva lasciato cadere prima, e osservò lo Squartatore che correva a sinistra, svoltava a destra e poi girava in tondo proprio mentre il cavallo lo raggiungeva e si impennava.

Don gridò.

Falwick urlò.

E lo stallone si abbatté su di lui, e le scintille si trasformarono in un fuoco verde.

11

Don si mise a sedere all’improvviso, con gli occhi spalancati e la bocca aperta in un grido che non raggiunse mai le labbra. Le braccia erano tese lungo i fianchi e la testa compiva movimenti circolari nel tentativo di far tornare la circolazione lungo la spalla destra. Improvvisamente la testa scricchiolò. Rimase con la bocca aperta. C’era la mano di una donna, lunghe pallide dita che cercavano di tranquillizzarlo. Con estrema cautela, i suoi occhi seguirono quella mano, individuarono il polso, poi il braccio, infine videro il viso ansioso e pallido della madre.

«Don, va tutto bene.»

Vide muoversi le labbra (il cavallo che si impennava), udì le parole (lo Squartatore che strillava) e solo dopo parecchi secondi acconsentì a sdraiarsi di nuovo, mentre una figura scura ai piedi del letto alzava il materasso per consentirgli di stare seduto.

«Don, tesoro, va tutto bene.»

Finalmente le urla senza eco scomparvero, il tunnel si chiuse su se stesso e, una volta messo a fuoco l’ambiente, non fu necessario chiedere nulla: si trovava in una stanza di ospedale.

Un’infermiera alla sua sinistra gli misurò il polso; un medico la cui faccia era familiare entrò e prese la tabella; annuì dopo averla letta, quindi passò davanti all’infermiera e si sedette su uno sgabello. Aveva il viso scarno e pieno di rughe per le troppe estati passate al sole, mentre i capelli ricordavano un arruffato cespuglio grigio.

«Come ti senti, ragazzo?» Le grandi mani si muovevano — la fronte, il petto; premevano fra i capelli, schiacciavano leggermente la testa. «Senti male da qualche parte? Probabilmente ti fa male la schiena, vero?»

«E come fa a saperlo?» chiese Don con voce rauca, cercando di uscire dal parco.

Il dottore gli sorrise. «Sei rimasto a letto parecchio tempo senza muoverti: la schiena deve farti male per forza.»

«Adesso può tornare a casa, Jerry?»

«Questo pomeriggio, credo», rispose il dottor Naugle. Guardò Don. «È solo per sicurezza, okay? Sono certo di aver fatto tutto, ma voglio esserne completamente sicuro.» Guardò in direzione di Joyce. «È ora di pranzo.» Mosse la testa verso il supporto dal quale il liquido della flebo scendeva lentamente nel braccio di Don. «Con quello che gli abbiamo dato da mangiare da mezzanotte a ora, immagino che starà morendo di fame.» Un sospiro soddisfatto e si alzò in piedi. «Sono sicuro che andrà tutto bene, ragazzo mio, giusto?»

Prima che Don potesse rispondere, il dottore se n’era già andato, seguito dalla madre e dall’infermiera. Alla fine, la figura scura uscì dall’oscurità.

«Papà?»

Norman cercò di parlare, poi si inumidì le labbra e fece una smorfia, sedendosi sulla sedia di Joyce. Batté affettuosamente sulla spalla e sulla gamba di Don, poi fissò con sguardo assente il tubicino appeso al supporto e il cerotto sul braccio del ragazzo. I capelli spettinati apparivano ancora più grigi alla flebile luce che filtrava attraverso le tende alla veneziana: gli occhi erano arrossati, il naso leggermente rosso, l’unica mano visibile continuava a muoversi nervosamente.

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