Charles Grant - La carezza della paura

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La carezza della paura: краткое содержание, описание и аннотация

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Quale sarà la prossima vittima dello squartatore, il mostro del New Jersey? Il timido Donald Boyd, capace di parlare solo con creature immaginarie di sua invenzione, assalito dal mostro, viene salvato da uno stallone nero che da allora lo difenderà sempre, apparendo dal nulla. Per Donald è la lotta contro una nuova inspiegabile ossessione.

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Il panico si impossessò di lui e lo svuotò completamente. Ma non sarebbe morto. Amanda era morta e Sam era morto, ma lui non sarebbe morto perché non era uno qualsiasi, non era soltanto un nome riportato dai giornali; era Don Boyd, e Don Boyd non sarebbe morto. Non ancora. Cristo, non ancora.

Lo Squartatore era troppo forte per poter lottare, e lui non aveva altra scelta che lasciarsi trascinare lungo il bordo del laghetto, con il collo sul punto di rompersi, il respiro difficoltoso e la parte posteriore della testa riscaldata dall’alito del mostro.

«Ragazzino fottuto», disse Tanker Falwick. «Di sicuro sei uno di quei fottuti ragazzini.»

Don fece oscillare una gamba e picchiò il tallone contro il cemento. L’uomo imprecò e Don piagnucolò per il dolore che gli attraversò la spina dorsale, ma almeno il cammino verso l’oscurità fu momentaneamente sospeso.

Falwick bisbigliò: «Vuoi fare il bagno? Come quella puttana? Vuoi fare il bagno, moccioso?»

Gli arrivò un calcio nel polpaccio, Don cadde e le dita lasciarono andare la gola, per afferrare una ciocca di capelli. Gli occhi iniziarono a lacrimare: l’uomo gli afferrò il braccio sinistro per il polso e glielo piegò dietro la schiena.

«Ascoltami, moccioso!» gli mormorò affannosamente nell’orecchio. «Piantala di rompere le balle e guarda! Vedi quella merda là in fondo? È sangue, vecchio mio. Sangue. Di quella puttana. Stupendo, vero? Ci devono essere almeno quattro litri di sangue laggiù, almeno quattro fottuti litri. E sai una cosa, moccioso? Possono anche andare avanti per cent’anni, ma non riusciranno mai a togliere da lì il sangue di quella puttana.» Una risata stridula, e la faccia di Don venne premuta con maggior forza contro la terra. «Hai fame, ragazzo? Vuoi leccare, moccioso? Vuoi…»

«Ti prego», provò a dire Don.

«Oddio, sentitelo!»

Ingoiò muco e acido e cacciò via le lacrime, domandandosi perché mai non aveva il fisico di Fleet o di Tar: avrebbe potuto divincolarsi dalla stretta dell’uomo, girarsi e ridurlo a pezzi sanguinanti proprio dove era morta Amanda.

Tanker gli premette la testa ancora più verso la terra, e quando il naso toccò il cemento, lui chiuse gli occhi con forza.

«Ti prego», disse, non più implorandolo, ma quasi ordinandoglielo.

«Ehi, fottuto ragazzino, il vecchio sergente ti sta facendo diventare matto? Ti sto facendo diventare matto, moccioso?»

Era proprio così. Non riusciva a capirlo, ma era proprio così. Era terrorizzato da quello che stava per accadere e arrabbiato per quella sua impotenza; non voleva morire, ma non c’era assolutamente nulla che potesse fare, niente di niente, come sempre.

«Io … Io non dirò niente, te lo giuro, non dirò niente.»

«Ah, il moccioso mi sta implorando. E non è bello. Sai una cosa, moccioso? Lo fanno sempre tutti. Alla fine mi implorano tutti. Sono convinti che io sia una merda, ma alla fine implorano tutti.»

Questa non è la fine, pensò, contorcendo il corpo all’improvviso, nel tentativo di liberarsi dalla presa. Ma la testa urlò quando lui gli tirò i capelli, e la coscia sembrò scoppiare quando lui la schiacciò sotto il tacco, e la giacca e la camicia che l’uomo aveva afferrato gli si stringevano attorno al petto, stritolandogli i polmoni.

«Quelle piccole puttanelle mi implorano sempre, ma non serve a niente. Di’ ciao, moccioso, miserabile pezzo di merda bianco.»

Don ebbe un conato di vomito mentre la testa gli veniva spinta all’indietro: spalancò gli occhi e guardò fisso, poi mosse rapidamente la mano destra e colpì il bicipite di Falwick con il gomito. L’uomo grugnì per la sorpresa e lasciò la ciocca di capelli; Don lo colpì di nuovo, rapidamente, sforbiciando con le gambe fino a ritrovarsi disteso sulla schiena, con il braccio sinistro ancora sotto il corpo dell’uomo, ma riuscendo nello stesso tempo a immobilizzare Falwick.

E vide la faccia dell’uomo.

La stessa faccia dai lineamenti duri, lo stesso uomo spregevole che aveva visto sotto la gradinata.

Falwick gli sputò addosso, colpendolo al lato della testa con un pugno, poi si alzò in piedi, tirandoselo appresso, lasciando andare il braccio piegato e facendolo girare. Rideva. Tossiva. Gli fece fare quattro giri e poi lo lasciò andare con uno squittio; Don arrivò come una trottola fino al laghetto e cadde seduto nell’acqua.

Un errore! pensò con esultanza. Potrei sfuggirgli.

Ma per prima cosa doveva trarlo in inganno, oppure distrarlo; l’uomo con la giacca di tweed se ne stava in piedi sul bordo e lo osservava con soddisfazione, leccandosi le labbra e strofinandosi leggermente il braccio.

«Hai intenzione di scappare?» chiese Falwick con un sogghigno. «Hai intenzione di provarci, ragazzo? Bene, se è così, è meglio che ti alzi, altrimenti ti faccio a pezzi dove sei adesso.»

Non era vero.

Stava succedendo a qualcun altro, era un sogno.

Era come … e Don vide se stesso sullo schermo del cinema: si alzava dall’acqua gelida con aria vendicativa e si lanciava in direzione dell’uomo, assestandogli un calcio in pieno petto con una mossa velocissima. Si udiva il rumore di ossa rotte. Il sangue colava dalle labbra incrostate dell’uomo. Un altro calcio nello stomaco, e poi un pugno letale al mento: lo Squartatore cadeva indietro, nel lago, rigido e privo di sensi.

Questo sullo schermo.

«Dannato moccioso», disse lo Squartatore con disgusto. «Voi piccoli, fottuti mocciosi, siete tutti uguali. Siete tutti dannatamente uguali. Non avete fegato. Siete solo dei fottuti ragazzini e non meritate di vivere.»

Don cercò di allungarsi fino a quando sentì la rete di protezione dietro la schiena.

«Bene», esclamò Falwick annuendo. «Molto bene. Stai cercando di partire in vantaggio.»

Il clacson di una macchina risuonò con insistenza lungo la strada. Lo stridore dei freni impazziti, poi il rumore del metallo che cozza contro altro metallo.

«Bene, merda», disse Falwick.

Don guardò dietro le spalle, non osando credere a quello che aveva udito. Un incidente. La polizia. Si alzò incespicando, mise le mani attorno alla bocca e gridò. Si afferrò alla rete di protezione e iniziò a correre. Falwick era di fronte a lui, con le braccia aperte e le dita che si agitavano.

Don fece una finta a sinistra, poi a destra, ma lo Squartatore rimase fermo davanti a lui, con le braccia ora alzate, ora abbassate, mettendo in mostra quelle orribili unghie che erano tanto lunghe da sembrare artigli.

Un grido, poi una mossa rapida: stava correndo lungo il sentiero, verso il campo da baseball, con la testa alta e le braccia in movimento, cercando di ignorare il dolore lancinante al collo e alla coscia, cercando di non ascoltare quell’uomo che lo stava inseguendo sempre più da vicino, quell’uomo che ansimava ridacchiando alle sue spalle, ringhiando come un cane liberato da un guinzaglio.

Fuori dagli alberi e attraverso i prati, verso l’uscita nord. Là c’erano delle case. Avrebbe gridato. Avrebbe potuto rompere un vetro. Qualcuno sarebbe venuto a vedere che cosa era successo e avrebbero chiamato la polizia. Poteva ancora essere un eroe; poteva ancora tornare a casa, e vivo; oh, Gesù, ti prego, non farmi morire, non voglio morire come Amanda.

Lo Squartatore gli era al fianco, seguiva facilmente la sua andatura e sogghignava. «Ehi, moccioso, tutto qui, quello che sai fare?»

Il ragazzo inciampò, l’uomo lanciò un urlo e gli assestò un pugno violento nello stomaco. Cadde in avanti, sentendo il fuoco attorno alla testa; si trascinò sulle mani e sulle ginocchia fino a quando i gomiti cedettero e cadde pesantemente a terra. Ansimava. Piangeva. Infuriato con se stesso per essere stato così idiota, infuriato con lo Squartatore che non lo voleva lasciar vivere, infuriato con quel fottuto mondo per tutte le sue dannatissime regole!

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