E fu allora che sentì tutte le sensazioni — la rabbia gli induriva i muscoli e gli mozzava il fiato, gli annebbiava il cervello tanto da non riuscire più a pensare, a capire, e fu costretto a fermarsi, ansimante, con le mani sui fianchi, e ad alzare il viso al cielo alla ricerca di un po’ d’aria che lo calmasse.
Tornò alle gradinate, asciugandosi le lacrime e cercando di non urlare il nome di Jeff. Cercando di non inseguire l’amico, per gettarlo contro una parete e domandargli che cosa aveva creduto di fare, permettendosi di parlare con la ragazza di Don quando era a Don che Tracey voleva parlare, quando era Don che aveva tentato di chiamare, e non ci era riuscita perché i suoi genitori erano troppo impegnati a sdrammatizzare il colpo della morte di Mandy. Nemmeno attutire. Stavano solo cercando il modo di permettere che la vita continuasse con il minor scompiglio possibile: la scuola, i festeggiamenti. Ashford. Centocinquant’anni. E Mandy aveva solo diciassette anni e lui ne aveva solo diciassette e mezzo e avrebbe fatto di tutto per evitare che succedesse anche a lui.
Si mise a sedere e lasciò penzolare nel vuoto le gambe. Le mani tremavano violentemente, la tensione non si era ancora scaricata; si sentiva le ginocchia gonfie, e si stava preparando a smetterla, a finirla, a cercare di dare un senso a tutto quanto quando, sulla destra, sentì un rumore.
Uno struscio, qualcosa che annusava e si muoveva sotto i sedili.
Voltò la testa e scrutò tra le ombre. Un cane, probabilmente. E rivide quello che aveva notato in precedenza — un luccichio degli occhi, o qualcosa che aveva in bocca. Un artiglio, oppure il colore del pelo.
Rimase ad ascoltare, ma non sentì niente.
Tornò a fissare la pista, scrollandosi tutto per rilassarsi e far sparire il rosso che aveva nella vista. Poi inspirò più volte e si alzò, guardando fra i gradini.
Superò la sorpresa iniziale e disse: «Ehi, chi è?»
Ma l’uomo rannicchiato contro il muro di mattoni si limitò a sollevare una mano lurida per fargli cenno di andarsene. Era un individuo dall’età indeterminata, con pantaloni da fatica e giacca di tweed, un’espressione di dolore sul viso, macchie scure sulle dita e il mento non rasato. Un uomo che si stava rannicchiando contro la parete e che gli fece cenno di andarsene per la seconda volta, senza dire una parola.
«Si sente bene, signore?»
Ancora quel gesto.
«Ehi, se ha bisogno di aiuto o di qualcosa…»
L’uomo lo guardò torvo e Don arretrò, controllando se sulle tribune ci fosse qualcuno da chiamare. Tornò a guardarlo e sbatté le palpebre. Una volta. Lentamente.
Il rosso sparì e riuscì a vedere con una chiarezza che faceva male agli occhi. Ma non sentì niente. Si limitò a tornare sulle gradinate e a sorridere all’uomo che si nascondeva sotto i gradini.
«Va’ a farti fottere, ragazzo», disse l’uomo.
Don continuò a sorridere, senza allegria, né felicità, solo una smorfia, era il messaggio con cui intendeva dire che sapeva bene chi fosse; lo sapeva e non gli faceva piacere.
«Maledizione, va’ a farti fottere, piccolo stronzo», esclamò l’uomo.
Annuì e si allontanò, attraversò il prato, salì i gradini e uscì dalla scuola per dirigersi verso casa.
Fantastico, pensò; è fantastico.
Se ne avesse avuto voglia, avrebbe potuto diventare un eroe.
Poteva andare diretto in cucina, chiamare la polizia, raccontare che sapeva dove si trovava lo Squartatore. E se l’assassino se ne fosse andato quando fossero arrivati sul posto, sarebbe stato in grado di fornire loro più di un semplice indizio, avrebbe potuto fornire una descrizione completa. La prima. L’unica. E lo Squartatore non si sarebbe più sentito tanto sicuro.
Ma quando entrò nell’ingresso, vide la sua giacca appesa alla ringhiera delle scale. La prese in mano, infilò un dito nel laccio sul collo e se la gettò sulle spalle.
Ragazzi, pensò, è un grande giorno. Ho ritrovato la giacca e ho la possibilità di diventare un eroe.
Andò in cucina a prendere una lattina di soda e si fermò sulla soglia. Suo padre era seduto al tavolo, intento a scarabocchiare qualcosa su un blocchetto giallo, con un’aria frettolosa e affaticata, e per niente allegra.
«Vedo che hai ritrovato la giacca», disse Norman, dopo aver alzato lo sguardo.
«Già. Chi l’ha riportata?» Aprì il frigorifero, prese la bibita e gettò la linguetta di chiusura nella spazzatura.
«Il signor Hedley.»
«Chi?»
Norman lasciò cadere la penna sul blocco e si appoggiò allo schienale.
«Il signor Hedley. Te lo ricordi l’insegnante? Mi ha portato la giacca in ufficio ieri mattina.»
Don non riusciva a capire e si mise a fissare il padre finché, infine, cominciò a intuire come stavano le cose.
«Pensi che sia stato io, eh?»
Norman scosse la testa. «No, no davvero.»
Ancora il rosso, questa volta a ondate.
«Che cosa intendi dire con no davvero? Non sono stato io, se lo vuoi sapere.» Gettò con violenza la lattina sul bancone, ignorando la schiuma che stava uscendo. «Cristo!»
Norman si gonfiò le guance e sbuffò: «Donald, non ho tempo per discutere. Tu dici di non aver gettato quella porcheria sulla sua veranda e lui ha trovato la tua giacca sulla siepe. E adesso pensa anche che abbia svuotato tu quella fialetta in classe. Mette insieme due più due e decide di essere gentile e di venire da me e non dalla polizia.»
«Okay», rispose lui. «Okay.»
«Ma dici di non essere stato tu. Anche dopo tutto quello che hai sofferto, dopo tutte quelle punizioni, continui a negarlo.»
«Mio Dio!» esplose Don. «Che cosa vuoi da me, una confessione scritta? Vuoi che mi sottoponga al test della verità?»
«Donald, basta così.»
Don era sul punto di dire che erano padre e figlio e che di tanto in tanto sarebbe stata una buona idea aver fiducia in ciò che diceva.
Ma non lo fece.
Disse: «Hai ragione, papà. Basta così.»
Si incamminò fermamente verso le scale, si fermò per assicurarsi di non essere seguito e poi si precipitò nel bagno. Riempì la vasca di acqua fredda e se ne gettò un po’ in faccia, cercò una spugna e se la passò sul collo.
Ma il rosso non se ne andava.
Si rifletteva anche sullo specchio, sbiadendo in rosa quel tanto che bastava per permettergli di vedere la propria immagine riflessa; si diffuse nello stomaco e credette di essere sul punto di esplodere; fece irruzione nelle orecchie con la violenza dell’oceano dopo la tempesta; lo circondò vorticosamente, lo fagocitò, lo scrollò e sparì così all’improvviso che dovette aggrapparsi al lavandino per non cadere sulle ginocchia.
Stava sudando e aveva freddo, si mise una salvietta attorno al collo e andò in camera sua, chiuse la porta e rimase in piedi di fronte al poster.
Gli alberi c’erano ancora; anche la nebbiolina, anche la strada.
Lo stallone era parzialmente nascosto dietro uno schermo di linee bianche.
«Che cosa sta succedendo?» sussurrò nervosamente, allungando una mano infreddolita per toccare il punto dove lo stallone stava sbiadendo. «Che cosa sta succedendo?»
Poi andò a sedersi sul letto e si coprì il volto con le mani.
Improvvisamente ebbe paura. Non per quello che stava succedendo al cavallo, ma per la pazzia che lo stava catturando, facendogli credere che stesse sparendo. Doveva essere quello il motivo. Stava impazzendo. Non c’era nessun poster al mondo dal quale sparissero le immagini e non c’era nessun ragazzo al mondo che parlava con una stupida fotografia e che la considerava un amico a cui raccontare i segreti e chiedere consiglio. Non c’era nessuno come lui, perché stava impazzendo, e non poteva nemmeno dirlo a Tracey perché aveva telefonato a Jeff e non a lui.
Jeff aveva paura.
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