Era già stato informato dell’assassinio.
La sera prima, il sergente Verona aveva telefonato subito dopo che Joyce era rientrata dalla riunione. Don aveva sentito l’ultima parte della conversazione di Boyd e si era preparato a quanto gli avrebbe detto suo padre. Poi il telefono aveva squillato di nuovo e aveva continuato a farlo per ore, con giornalisti e solo Dio sa chi altro, che volevano sapere le reazioni ufficiali, private, a caldo del preside. Norman se l’era cavata bene, e Joyce era al suo fianco, intenta a scarabocchiare al tavolo della cucina una dichiarazione che lei avrebbe dovuto leggere a tutti in continuazione.
Durante una pausa, Norman si era girato verso di lui e gli aveva chiesto se la conosceva, se era una sua amica. Si era limitato ad annuire ed era tornato senza ostacoli nella sua stanza.
Si era innervosito, perché avrebbe voluto fare qualcosa di più che annuire. Avrebbe voluto dire che non faceva nessuna differenza che lei fosse sua amica o meno. Aveva diciassette anni e lui ne aveva diciassette e mezzo, e lei era morta e giaceva sotto un lenzuolo sporco in qualche fottuto obitorio. Era morta, e gli altri no. Non era uno stronzo qualsiasi di una scuola qualsiasi; era Amanda, Mandy, la bella donna dai capelli scuri di Fleet, e lui la conosceva, e lei era morta, e aveva solo diciassette anni, e possono morire i giovani sconosciuti, ma Amanda no, perché Don la conosceva e la gente che lui conosceva non poteva morire. E, più di ogni altra cosa, non si poteva morire per colpa di qualche maniaco, non si poteva passare sopra a un assassinio mentre i ragazzi morivano per le fottutissime strade e che importanza poteva avere se la conosceva o no; era morta e aveva solo diciassette anni.
Quella mattina aveva promesso di non dire niente fino alla dichiarazione ufficiale. Non faceva differenza, visto che la maggior parte dei ragazzi lo sapeva comunque grazie ai macabri pettegolezzi che si facevano in giro, e coloro che non lo sapevano erano stati immediatamente informati.
Ma lui aveva mantenuto la promessa e, quando le lezioni erano state sospese, si era diretto verso la pista.
E là vide le facce che si muovevano, ne vide arrivare di nuove, vide qualche ragazzo che sorrideva perché la scuola era stata sospesa, e altri imbronciati che fissavano vacuamente l’erba agitata dal vento.
Non c’era nessuno sulle gradinate.
Al terzo giro, si accorse di un movimento sotto i sedili di legno, rallentò, scrutò attentamente le ombre, poi riprese velocità. Non era niente. Solo un gioco di luci. Un gioco del cielo e del sole, ai quali non importava un fico secco che una diciassettenne fosse stata squartata, perché i poliziotti non erano stati in grado di catturare un lurido assassino.
E questo, decise, avrebbe fatto parte del nuovo regolamento che aveva escogitato: nessuno, nemmeno gli adulti, avrebbe dovuto morire per mano di un pazzo bastardo, che pensava di essere chissà che tipo di bestia.
Iniziò un altro giro, a capo chino e con le braccia penzolanti. Aveva la maglietta sporca di sudore, i pantaloni umidi e attaccaticci. Tracey non era andata a scuola. Non poteva darle torto. Dal resoconto ingarbugliato che aveva sentito la sera prima, anche lei aveva rischiato di essere ammazzata. La prima cosa che avrebbe fatto tornando a casa sarebbe stato di perdonarla per non essersi messa in contatto con lui e di telefonarle.
Sentì chiamare il suo nome.
Lo ignorò e si avvicinò alla curva che aveva di fronte, in direzione delle gradinate. Avrebbe fatto ancora un giro e sarebbe tornato a casa per farsi una doccia. Poi avrebbe telefonato. E avrebbe cercato di capire che cos’era successo alla sua migliore amica.
Era stato domenica, quando aveva avuto finalmente la possibilità di studiare il poster più da vicino, che si era reso conto di aver avuto torto, perché nessuno aveva tentato di rovinare la fotografia — aveva toccato la carta con un dito e si era accorto che i graffi erano all’interno della fotografia stessa. Non c’erano increspature, né ammaccature. Solo uno schermo statico di linee bianche che non avevano nessun senso. Erano graffi che non erano stati causati dal passare del tempo.
Sentì chiamare il suo nome.
Aggrottò le sopracciglia e si guardò attorno, e vide Jeff alla ringhiera delle tribune. Diede un’occhiata alle gradinate, domandandosi che cosa avesse intravisto prima, e poi decise di averne abbastanza. Massaggiandosi il collo con una mano, si diresse al gradino più vicino, si fermò e si lasciò cadere sul primo sedile per aspettare Jeff.
«Ehi», disse Lichter, senza molto entusiasmo.
«Sì», rispose passandosi il braccio sulla bocca.
«Che stronzi!»
Don appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si sporse in avanti, nel tentativo di riprendere fiato. Pensava ad Amanda. Una goccia di sudore gli cadde sulla scarpa.
«Cioè, non sanno nemmeno che aspetto abbia quel pazzoide, santo cielo! Ma credono che sia un gioco? E siamo a sette, no? E non sanno nemmeno che aspetto abbia!» Si tolse gli occhiali, tirò fuori un lembo della camicia e si mise a ripulirli. «Tracey è pronta a trasferirsi da sua nonna, e ti garantisco, Don, che non posso darle torto.»
Don si coprì la faccia con le mani, allargò leggermente le dita e guardò verso il cielo. «Che cosa vuoi dire?»
«Voglio dire che lei e Mandy stavano tornando dalla biblioteca, pensando ai fatti loro, e tutt’a un tratto salta fuori quel pazzo, e l’ultima cosa che Tracey riesce a ricordare è che Mandy e quell’uomo sono entrati nel parco. Si è messa a urlare come una matta — Tracey, intendo — tanto che è diventata roca e si è precipitata da Beacher per telefonare. E là ha trovato suo padre, ma non riusciva a parlare, tanto era spaventata. È dovuto andare un dottore a casa sua per darle qualcosa per farla dormire.» Si rimise gli occhiali e si tirò indietro i capelli. «Scommetto che non ci è riuscita lo stesso. Scommetto che non ha chiuso occhio.»
Don si sdraiò sul gradino fino ad appoggiare i gomiti su quello più in alto. Poi si rivolse a Jeff. «Ti ha telefonato?»
«Sì.»
Annuì e sentì che qualcosa crollava dentro di lui, come una crepa che incrina lentamente una parete.
«Ha pianto molto, credimi.»
La parete crollò completamente, sollevando un polverone. «Ti ha telefonato.»
«Sì, ho detto di sì.» Jeff sorrise, poi trovò qualcosa su cui concentrarsi sul campo da football. «Ha detto di aver bisogno di parlare con qualcuno e la tua linea era sempre occupata. Ha detto che ha tentato per quasi un’ora, ma doveva parlare con qualcuno e, siccome non riusciva a comunicare con te, ha provato con me.»
«E tu eri a casa.»
La risata di Jeff suonò spontanea. «Certo! Credi che mio padre mi lascerebbe stare fuori fino a tardi nelle sere feriali?»
«Be’, sono contento per te», disse Don, alzandosi e pulendosi i pantaloni.
«Ehi, Don, ti ho detto che ha provato a telefonarti.»
«Lo so, lo so.»
«Ma la linea era occupata.»
«Mio padre», spiegò. «I giornalisti e chissà chi altro, e la polizia.»
«Oh. Be’, senti, dovresti telefonarle quando torni a casa, sai? Cioè, voleva parlare con te, non con me.»
«Certo.» Si diresse verso le scale; aveva voglia di correre ancora, nonostante la fitta che sentiva al fianco.
«Ehi, Don, maledizione», lo chiamò Jeff.
Non si voltò.
«Ehi, non è colpa mia.»
Riprese a correre.
«Be’, va’ al diavolo, amico.»
E quando passò dalle gradinate, Jeff se n’era andato.
Imputò il bruciore all’occhio sinistro al vento, abbassò il capo per cercare di schiarirsi la vista e si concentrò sul ritmo costante dei piedi che battevano sulla pista.
Un. Due. Il selciato era tanto soffice che non aveva nemmeno l’impressione di muoversi.
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