«Dio», disse. «Spero davvero di non essere così brutta.»
Norm riuscì a fare un debole sorriso dopo essersi asciugato la fronte con il palmo della mano e si precipitò a prendere una delle borse. Seguendola in cucina, le domandò com’era andata la giornata, la aiutò a sistemare le lattine e le scatole negli armadi e infine si decise a chiederle se sapesse cosa stava rodendo il loro figlio.
«Domandalo a lui», rispose lei, afferrando un tegame da sotto il lavandino. «Sei tu che parli la lingua dei giovani, a quanto si dice in giro.»
«Ehi, siamo nervose oggi, vero?» le disse, ma senza la solita amarezza.
Lei lo guardò lasciarsi andare su una sedia, accendersi una sigaretta e fissare il fumo finché svaniva nel vuoto. «Per me è stata una giornata di merda, ma per te dev’essere stata un inferno.»
«Ci sei vicina», le rispose.
E mentre preparava un pasto veloce, qualcosa da mangiare in cinque minuti senza sentirsi troppo pieni, ascoltò il suo racconto sul tiro che Hedley aveva subito durante il week end, sugli allenatori che si lamentavano perché gli insegnanti si erano messi d’accordo nel trattenere i giocatori migliori per rovinare la finale di venerdì contro la Ashford Nord, e sugli insegnanti stessi e su quel figlio di puttana di Falcone con la sua minaccia di far sfilare per strada tutti i docenti nel giro di due giorni.
Lei non disse niente, perché sapeva che anche una sola parola sbagliata gli avrebbe fatto perdere la pazienza. C’erano tutti i sintomi.
E sapeva anche che lui aveva scelto deliberatamente di parlare della storia di Harry solo alla fine di quella tirata noiosa. Forse aveva pensato di coglierla di sorpresa; forse aveva pensato che si sarebbe schierata in difesa di quell’uomo rivelando in quel modo il suo amante non più segretissimo.
O forse non aveva pensato proprio a niente e stava solo divagando, nella speranza di far uscire tutto lo schifo di quella giornata prima di rilassarsi e di mettersi a pensare al giorno dopo.
Dopo tre sigarette lui era sfinito e il silenzio la rese nervosa. Si voltò dai fornelli e lo vide che la osservava.
«Mi dispiace per la cena», disse lei, facendo un gesto verso la zuppa e i panini. «C’è un…»
«Incontro del comitato, questa sera», finì lui al suo posto. «Lo so.»
«Be’, è così», ribatté Joyce. «Dio mio, inizia tutto mercoledì, sai.»
«Lo so.»
«E visto che ci siamo, ti vorrei dire che quello che ti ostini a chiamare capobanda è un vero coglione, Norm. Si comporta come se fosse sul podio della Filarmonica di New York, santo cielo. Non gli stiamo mica chiedendo il sangue, dopotutto. E lui sta già parlando di una paga extra!»
«Lo so.»
Sbatté una mano sul bancone. «Vuoi, per favore, smetterla di rispondere in quel modo? Se sai tutto così bene, perché diavolo non gli parli, visto che ormai te l’ho già chiesto un centinaio di volte?»
«Forse trecento, chi le conta più?» rispose lui.
«Cristo.»
Gli girò le spalle e mescolò la zuppa, mentre con la mano libera si tirava la coda di cavallo sopra le spalle e la scuoteva, cercando di rilassarsi, di trovare un modo per convincerlo a parlare con Donald. Lei non riusciva a farlo. Quando era andata a dargli un’occhiata domenica e l’aveva visto con quell’espressione sul viso, si era resa conto che non avrebbe mai potuto fare con lui una conversazione decente ed era corsa via dalla stanza.
Era orribile.
Era innaturale.
Ma dopo averlo visto in quello stato, non malato ma chissà che altro, si vergognava ad ammettere di avere paura di lui.
«Hai parlato con Don?» gli domandò infine, con un tono di voce basso, e schiarendosi la voce per l’imbarazzo.
«No. Ero appena rientrato quando sei arrivata tu.»
«Allora lo farai?»
«Quando sarò pronto.»
Il cucchiaio andò a sbattere contro la parete del tegame.
«Se vuoi sapere la verità», disse lui, dando la sensazione di essere meno arrabbiato, ma non meno stanco, «credo che il ragazzo abbia bisogno di una sculacciata, ma è troppo grande per questo. Se cercassi di farlo, con tutta probabilità mi tirerebbe un pugno sui denti.»
Un anno prima, un mese prima, una settimana prima si sarebbe rivoltata con violenza per aver soltanto osato suggerire un’idea del genere; ma quella sera si limitò ad annuire senza permettergli di vedere la sua espressione.
«In effetti, credo che sia innamorato.»
Sollevò il cucchiaio pieno di zuppa per assaggiare se si era scaldata e tornò a mescolarla. «Non credi anche tu?»
«Sì, credo che abbia i calori per la figlia di Quintero. Il poliziotto.»
«Norman, vorrei che non parlassi in quel modo.»
«In che modo?» chiese con tono di innocenza, di noncuranza.
«Quando dici che Don ha i calori per qualcuno. Se è innamorato, è innamorato e questo non significa necessariamente che debba fare del sesso con una bambina.»
Ma non è innamorato, pensò, sperando quasi che lui le leggesse nel pensiero. Non è innamorato. Lo so. Sono sua madre e lo so.
«Be’, forse», concesse lui. «E c’è un’altra cosa.»
«Che cosa?»
«Se non la smetti con quel cucchiaio, avremo colla a cena.»
Non era stato tanto spiritoso, ma lei rise comunque mentre si dirigeva nell’ingresso per chiamare suo figlio, avvertendolo che la cena era pronta e che era meglio si affrettasse prima che si raffreddasse tutto. Non ci fu risposta. Lo chiamò di nuovo, pensando a quanto aveva desiderato che assomigliasse di più a Sam, che non aveva mai avuto bisogno di essere chiamato due volte, che non aveva mai procurato problemi.
«Donald!»
Sentì la porta aprirsi, sentì i passi nell’ingresso e sorrise nel miglior modo possibile quando lo vide apparire sul pianerottolo.
«Non ho molta fame, mamma», disse.
«Be’, sarà meglio che tu scenda e mangi quello che puoi. Non ti farà male e non voglio che ti ammali proprio durante le feste di questa settimana.»
«Sì», rispose lui, diede un’occhiata alla sua stanza e cominciò a scendere. Lentamente. Fece scivolare la mano sulla ringhiera finché non si trovò a un passo da lei. Il sorriso c’era ancora, ma così da vicino riuscì a vedere i suoi occhi, riuscì a vedere il suo sguardo, uno sguardo cupo che la fece sentire una formica sul punto di essere schiacciata, per capriccio di un ragazzo comune e inspiegabilmente terrorizzante.
«Coraggio», gli disse bruscamente e si allontanò.
Lui la seguì e lei aumentò il passo e riuscì a sopprimere con fatica un sospiro di sollievo quando notò che Norman era ancora seduto alla tavola. Persino una lite in quel momento sarebbe stata meglio di niente.
Ma Norm si limitò ad annuire e Don rispose annuendo a sua volta e durante la cena si scambiarono parole tanto gentili, tanto formali, tanto stupidamente insensate che per la prima volta le capitò di desiderare la presenza di Harry. Lui avrebbe saputo che cosa fare. Era rimasto, nonostante il modo di vestire e le maniere che usava con gli studenti, un tipo vecchio stile quando si trattava di affrontare i ragazzi, e lui avrebbe saputo come fare per trattare con quello straniero che era suo figlio.
A cena terminata, mentre lei stava raggruppando le stoviglie nel lavandino, Don chiese: «Avete intenzione di divorziare?»
Joyce si voltò di scatto lasciando cadere per terra rumorosamente una terrina che però non si ruppe. «Dio mio, Donald, ma che cosa dici?»
«Torna nella tua stanza», gli ordinò Norman con uno strano tono di voce.
«Era solo una domanda», disse Don, scrollando le spalle. Poi si alzò, piegò il tovagliolo di carta e uscì.
«Cristo», esclamò Norman prendendo una birra dal frigorifero.
«Norm, che cosa dobbiamo fare?»
Lui la guardò, ubriaco, e fece uno sforzo per ruttare.
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