Charles Grant - La carezza della paura

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La carezza della paura: краткое содержание, описание и аннотация

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Quale sarà la prossima vittima dello squartatore, il mostro del New Jersey? Il timido Donald Boyd, capace di parlare solo con creature immaginarie di sua invenzione, assalito dal mostro, viene salvato da uno stallone nero che da allora lo difenderà sempre, apparendo dal nulla. Per Donald è la lotta contro una nuova inspiegabile ossessione.

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Si incamminò per il corridoio. Era deserto, le luci stavano già affievolendosi ed era anche più scuro per la mancanza di finestre, per le pareti grigiastre e per l’assenza di porte. Le uscite per la palestra e per lo stadio si trovavano dall’altra parte. Aveva detto che sarebbe andato a correre, la soffiata di Chris glielo aveva confermato, per cui si incamminò lentamente verso le porte che sembravano a chilometri di distanza. Da qualche parte si sentiva ridere un gruppo di ragazzi, con tutta probabilità la squadra di football che si stava preparando per l’allenamento. Si levò una voce più acuta, che divenne rauca per poi trasformarsi in una risata; era la squadra di basket femminile che si stava avviando verso la palestra più piccola, di fronte a quella principale.

I suoi passi rumoreggiavano sul pavimento come se avesse avuto i tacchi di ferro.

Si affrettò, sentendosi nervosa, le spalle leggermente rigide, il mento sul petto.

Rallentò, per riflettere se stava facendo la cosa giusta, e si accorse che qualcosa la seguiva.

Passi irregolari, che suonavano vuoti, forti.

Gettò un’occhiata alle spalle, ma non vide nulla e riprese a camminare. Un ragazzo, forse uno dei bidelli, Gabby D’Amato che trascinava una delle sue scope.

L’idea che uno dei custodi dai capelli brizzolati potesse seguirla le fece venire i brividi e aumentò il passo. Non le piaceva quel vecchio; non piaceva a nessuna ragazza. Sospettavano tutte che trascorresse la maggior parte del tempo negli spogliatoi delle donne e sapevano con sicurezza che passava ore di fronte all’ingresso della palestra femminile, per osservarle in pantaloncini corti e maglietta.

Dietro di lei. I passi.

Si ritrovava a pochi metri dall’uscita, e sul pavimento non risuonava nient’altro che il suo passo, si sentiva solo il suo fiato, e il rumore che la seguiva, vuoto e forte, sempre più vicino.

Non guardare, disse tra sé e sé; raggiungi la porta ed esci, va’ a bloccare Don e cerca di strappargli un invito, a costo di strappargli la gola.

Nel frattempo, il rumore forte si faceva più veloce sul legno — più vicino.

Non guardare, idiota; e girò l’angolo.

Il corridoio era vuoto.

Ma si sentivano ancora i passi.

E riuscì a vedere un’ombra enorme che attraversava la parete sul fondo.

Non era un uomo; era sicura che non si trattasse di un uomo, perché se così fosse stato, si trattava di qualcuno che stava arrancando, appoggiandosi in modo instabile contro le mattonelle del muro, contro gli armadietti. Ma non si sentì nessun rumore che assomigliasse a quello che fa una spalla contro il metallo, nessun rumore di fiato pesante, nessun rumore in assoluto a parte quei tonfi sul legno che indicavano chiaramente che si stava muovendo qualcosa.

Qualcosa di più grande di un ragazzo, di un uomo.

Sbatté gli occhi, stringendo al petto i libri, con la bocca e la gola secche, mentre le labbra avevano voglia di far uscire un urlo.

Poi la cosa svoltò l’angolo e lei urlò, superò la porta e uscì precipitandosi giù per la gradinata. Era quasi arrivata sul campo, quando si rese conto che lo stadio era vuoto. Don non c’era. Non c’era nessuno. Era sola.

La scuola la sovrastava e si precipitò verso la pista.

Che cos’era stato?

Non lo sapeva. E non aveva intenzione di fare la stupida andandosene in giro per cercare di soddisfare la sua curiosità. Poteva essere stato un gioco di luci, e potevano essere stati i suoi nervi tesi per dover affrontare Don, ma qualsiasi cosa avesse svoltato quell’angolo non era umana; non poteva essere, a meno che, pensò fermandosi di colpo, non si fosse trattato dello Squartatore che stava cercando qualcuno da ammazzare.

Allora si mise a correre e non si fermò finché non raggiunse casa sua.

La porta dell’ufficio era chiusa, le segretarie se n’erano andate in anticipo e Norman stava alla finestra. Vide la giovane Quintero che correva per strada come se fosse inseguita da un rapinatore. Si sporse per vedere se ce ne fosse veramente uno, ma non c’era nessuno.

Brontolò e andò a sedersi alla scrivania.

«È una puttana», disse allentandosi la cravatta e sbottonandosi il colletto della camicia.

Harry Falcone proruppe in una risata dalla poltrona di fronte, dov’era seduto a gambe accavallate con la giacca sportiva aperta. «Puoi dirlo ancora, se vuoi.»

«Okay, è una puttana.»

Sorrisero, ma non troppo a lungo.

Norman afferrò una matita, la rigirò e la mise sul tampone. «Non puoi farcela, sai. Ti tornerà tutto nel culo, il consiglio non muoverà un dito e i genitori dei veterani verranno a caccia della tua testa.»

Falcone emise un verso che assomigliava a un grugnito o a un lamento e si appoggiò allo schienale, fissando il soffitto. «Che possibilità abbiamo, Norman?»

«Accettare l’offerta che c’è sul tavolo, per prima cosa.»

Falcone rise ironicamente.

«Allora che ne dici di un arbitrato vincolante?»

Un’altra risata; questa volta più amara.

«Be’, allora, che fate, per l’amore del cielo?»

«Cammineremo», rispose Falcone, senza guardarlo in faccia. «Ci metteremo a camminare. Se i voti sono favorevoli questa sera, ci metteremo per strada mercoledì dopo l’ultima campana, a meno che qualcuno non ci sottoponga un contratto con il quale sia possibile vivere.»

«Pazzesco.»

«Questa», disse Falcone, drizzandosi sulla sedia, «è la tua opinione.»

Norman si voltò all’improvviso, guardò verso il prato e comandò a se stesso di rilassarsi.

«Hai qualche dichiarazione che desideri farmi leggere alla facoltà questa sera?»

«Leggi l’ultima», gli rispose amaramente. «Non ho nient’altro da dire.»

«Cristo, Norm, sei uno stronzo, sai? Sei veramente uno stronzo. Hai la possibilità di sistemarti per tutta la vita, potresti diventare un eroe e gli insegnanti della scuola si ammazzerebbero per te, ma tu continui a insistere nel tagliarti la gola.»

Brutto figlio di puttana, pensò; brutto figlio di puttana maledetto.

Girò la sedia, lasciò cadere la matita e appoggiò i gomiti sulla scrivania. Falcone stava sorridendo. Norman afferrò il compito di Don. Il sorriso dell’insegnante non cambiò.

«So quello che stai facendo», disse Norm pacatamente. «E così non funziona. È evidente che stai cercando di arrivare a me attraverso Joyce e attraverso Donald. Così non funziona, per cui piantala, Falcone. Lascia fuori dalla merda mio figlio.»

«Oh, Dio», sospirò l’altro, alzandosi e lisciandosi i risvolti mentre si dirigeva verso la porta. «È una minaccia, signor preside?»

Norman considerò l’idea di ritrattare, di porgere una mezza scusa. Sapeva come avrebbe agito quell’uomo se lui non lo avesse fatto — una dichiarazione alla facoltà sulle accuse del preside, forse anche una spifferata alla stampa. Norman sarebbe diventato all’istante il cattivo, il tirapiedi del consiglio per tutti quanti. Norman sta perdendo il controllo perché ha perso il controllo della scuola, e chi avrebbe voluto che un uomo di quel genere si trovasse in posti di potere nella città?

«Harry», disse richiudendo il compito e mettendoci sopra un pugno, «mettiamola in questi termini; ti faccio mangiare i coglioni se tenti ancora qualche idiozia del genere. Credimi, Harry. Ti romperò il culo.»

Falcone esitò un attimo prima di dirigersi verso la soglia, si voltò leggermente e lo guardò senza tremare. «Ti posso concedere il figlio», rispose con voce appena udibile, «ma che mi venisse un colpo, signor Boyd, se capisco perché stai mettendo di mezzo anche la tua cara mogliettina.»

La porta si chiuse.

Norm scattò in piedi, pronto a reagire, ma si sentì afferrare da una mano sulla spalla che lo fece sedere di nuovo. Non c’era nessuno nella stanza, ma per lui era lo stesso e cominciò a tremare quando si rese conto di com’era stato vicino ad ammazzare quell’uomo. Si morse il labbro inferiore fino a farsi male, per cercare di ritornare in sé, e poi mormorò: «Non è leale. Non è proprio leale.»

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