Non partì facendo stridere i pneumatici, ma fu abbastanza veloce per sparire prima che Adam Hedley scendesse dal primo piano, avvolto in un plaid, e cominciasse ad avvertire l’orrenda puzza.
Brian non rise mentre guidava verso la collina. Si limitò a guardare Tar con un sorriso appena abbozzato.
«Missione compiuta», disse.
Qualcosa si muoveva nella pioggia.
Passava per le strade senza fare rumore; passava sotto i lampioni senza lanciare ombre; camminava in mezzo alle pozzanghere, lasciando l’acqua intatta; sfiorava le siepi senza far muovere i rami.
Un cane sulla veranda accanto alla casa di Adam Hedley cominciò ad abbaiare, tirando la catena che lo imprigionava alla porta, ma poi passò a un uggiolio di benvenuto quando il nuovo arrivato si incamminò su per il vialetto. Fissò il terrier, gli volse le spalle e se ne andò, e il cane iniziò a tremare, alzandosi sulle zampe, ringhiando alla sua ombra, urinando sullo zerbino e prendendosela con la luna.
Qualcosa si muoveva nella pioggia, senza fare rumore.
La stanza era ampia e perfetta. I mobili erano abbastanza nuovi per renderla luminosa e sufficientemente vecchi per essere comodi: il letto aveva il baldacchino, proprio come piaceva a Chris, la scrivania e la sedia arrivavano direttamente da Regent Street, Londra, il morbido tappeto multicolore dall’India, il divanetto a due posti proveniva da un negozietto di Soho che aveva scoperto due anni prima. Le pareti erano ricoperte da carta bianca con fiocchi dorati, il soffitto era stato dipinto di fresco, le lampade di alabastro conferivano un giusto tocco di frivolezza, senza però rendere troppo evidente che la stanza apparteneva a una ragazza che desiderava avere un marito e due bambini per completare la propria vita. Nell’angolo più lontano c’era un piano verticale, con una pila di spartiti in bilico sul sedile.
Vicino alla scrivania c’era una porta aperta che conduceva al suo bagno privato. Era stata una delle condizioni per cui aveva accettato di lasciare Manhattan: avere la maggior privacy possibile per tenersi lontana dagli affari della casa, per isolarsi; se fosse stato possibile avrebbe anche chiesto un ingresso indipendente, ma così avrebbe esagerato. Suo padre, di solito indulgente al punto di farsi manipolare, si sarebbe rifiutato e con tutta probabilità l’avrebbe mandata in quella dannata scuola raffinata del Vermont dove sarebbe stata in mezzo a un mucchio di ragazze, assomiglianti a tante stupide mucche.
A sua madre non importava niente; trascorreva la maggior parte del tempo a scrivere lettere fiume ai figli più grandi che stavano a Yale e a Vassar, oppure se ne andava in Florida a trovare la sua vecchia.
Comunque era perfetta e, qualsiasi reclamo avesse da fare, se lo teneva per sé.
Si spazzolò i capelli allo specchio del bagno, smuovendoli da parte a parte, sbuffando al pensiero di doverseli lavare di nuovo. Non le piaceva lavarli, asciugarli, spazzolarli in continuazione per mantenerli lucidi. Le sarebbe piaciuto tagliarli e tingerli di blu. Ma, se lo avesse fatto, avrebbe avuto un’aria ripugnante, e questo non faceva parte dei suoi piani.
L’asciugamano cominciò a scivolarle di dosso e lo afferrò con un’imprecazione, tenendolo in mano mentre spegneva le luci del bagno ed entrava nella stanza buia. Si trattenne dal premere l’interruttore. Non ancora, pensò. Voleva restare nell’oscurità ancora un po’, ad ascoltare la pioggia che batteva sulla finestra, ad ascoltare quel benedetto silenzio che le indicava che era sola. Emise un sospiro di felicità e andò a sedersi nella poltrona accanto alla finestra, abbracciandosi le ginocchia e guardando fuori. Non c’era molto da vedere con tutta quella pioggia, al tramonto, ma le luci della casa dall’altra parte del suo giardino erano ancora visibili, e si facevano sempre più luminose, mentre le foglie stormivano dall’alto degli alberi.
L’asciugamano scivolò ancora; non se ne preoccupò.
Appoggiò un palmo contro il vetro e rabbrividì per il contatto freddo, premette il viso contro la finestra per cercare di vedere il retro della casa dei Boyd. Era lontana e ostacolata da troppi alberi, però riuscì a vederla, e vide Don, e vide anche suo padre.
Si domandò se avessero lontanamente capito quello che aveva in mente di fare, se Don ci sarebbe rimasto male, sapendo che era coinvolto anche lui. Norman, pensò, non sarebbe stato un problema. Sicuramente no, a giudicare dallo sguardo che le aveva lanciato il giorno prima quando si era salutata con suo figlio, e anche a giudicare dai sorrisi che le lanciava ogni volta che lei riusciva a trovare una scusa per andare a parlargli nel suo ufficio.
Non era uno stupido. Sapeva che si era accorto del suo piano. Aveva capito perché era venuta in quella sporca città a diplomarsi con il più alto punteggio possibile, non importava con quale mezzo; aveva sicuramente capito che un fiore in un giardino incolto è più bello di un fiore in un’aiuola, specialmente quando si tratta di un fiore che fa presa sugli uomini. In un posto come quello, lei faceva la parte dell’orchidea.
Sua madre aveva preferito restare nell’ombra e ne aveva pagato le conseguenze; i suoi amici erano troppo indaffarati a trasformare il lavoro e le dichiarazioni d’amore in considerazioni politiche.
Chris, d’altra parte, sapeva di essere in guerra e solo gli stupidi e le puttane non sanno usare le proprie armi.
Norman aveva capito, glielo aveva letto negli occhi; Don avrebbe capito più tardi, forse, ma non prima che lei fosse pronta.
Un’ombra nel giardino.
Si sporse in avanti, asciugò il vetro e scrutò di nuovo.
Sospirò.
Non era Don, e Norman non era uno stupido.
Era un gatto al quale sorrise mentre si stirava e pensava a come fare la prossima mossa.
Qualcosa si muoveva nella pioggia e il sergente Quintero, chiuso nella macchina di pattuglia, si mise all’erta. Stava aspettando che Verona uscisse dal gabinetto del bar. Si era rifiutato di entrare con lui perché sapeva che avrebbe incontrato qualche donna. Era domenica. Anche di domenica ci sarebbe stata qualche donna sugli sgabelli del bancone, impegnata a bere e a parlare con il proprietario, in attesa che arrivasse qualcuno a riportarla a casa. Era una cosa che lo faceva innervosire e si era rifiutato di entrare quando Tom aveva dichiarato di non poterne più dei continui scossoni dell’auto. Vado a svuotarmi la vescica, aveva detto uscendo dall’auto; Quintero si era limitato a fare un verso e ad abbassare il finestrino per respirare una boccata d’aria fresca.
E aveva sentito il rumore nel vicolo.
Si mise a scrutare, pensando che era uno strano posto per dormirci, osservò la pioggia e decise di lasciar perdere quel vagabondo.
Poi lo sentì di nuovo, che si allontanava lentamente.
Sembrava qualcuno che batteva mollemente per terra con un badile.
Diede un’occhiata alla porta chiusa del bar, poi si strinse nelle spalle e si chiuse bene il bavero attorno al collo. Scese dalla macchina e si toccò con la mano il fianco sinistro per assicurarsi di avere con sé la pistola, poi guardò torvo la pioggia e mosse verso l’imboccatura del vicolo.
Era buio.
Sul retro, lo sapeva per via delle notti insonni passate a rincorrere gli ubriachi, c’era un recinto di legno rotto che conduceva a un giardino. Un bambino avrebbe potuto passare, ma un adulto avrebbe dovuto bestemmiare e scavalcare.
Fu in quel momento che si sentì il rumore del legno che cedeva, come colpi di pistola, e un riflesso lo costrinse a correre tenendo la pistola sempre in mano, mentre gli occhi cercavano di orientarsi nella nebbiolina. Ma nonostante la luce fioca della strada e quelle delle case più a nord, non riuscì a vedere niente, nemmeno quando raggiunse il recinto. Si fermò a osservare di quanto si era allargata la fessura.
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