Charles Grant - La carezza della paura

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La carezza della paura: краткое содержание, описание и аннотация

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Quale sarà la prossima vittima dello squartatore, il mostro del New Jersey? Il timido Donald Boyd, capace di parlare solo con creature immaginarie di sua invenzione, assalito dal mostro, viene salvato da uno stallone nero che da allora lo difenderà sempre, apparendo dal nulla. Per Donald è la lotta contro una nuova inspiegabile ossessione.

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Don si sedette sull’ultimo gradino. Era entrato in casa per asciugarsi il sudore e per prendere un maglione, pensando di andarsene subito in camera, quando si era accorto che i suoi non erano ancora tornati. Non avrebbero mai saputo che era uscito. Avrebbero continuato a pensare che era stato obbediente. Si era seduto sul letto e aveva fissato la parete ormai vuota dove una volta c’era lo stallone; poi aveva percepito il vuoto sugli scaffali, il rumore sordo del suo respiro e il freddo che le pareti dipinte di bianco sembravano emanare. Aveva dato un’occhiata alla stanza dei suoi, alla stanza di Sam, poi aveva aperto la porta del solaio ed era salito.

Erano là, raggruppati sugli scatoloni, sparsi disordinatamente sul pavimento polveroso, buttati su un baule che una volta apparteneva a suo nonno. Aveva ingoiato il nodo alla gola, era rimasto immobile e infine aveva raccolto il poster riportandolo da basso. Lo aveva attaccato sopra la scrivania e si era messo a fissarlo pensieroso.

Si vedeva male a causa della luce che se ne stava andando.

Sentiva solo le foglie, le ombre e il silenzio della casa alle sue spalle.

Passarono velocemente un paio di automobili, ma non ci prestò nessun’attenzione; un gruppo di bambini schiamazzava al tramonto, ma non sorrise ai loro saluti; una convertibile rossa stava risalendo la strada, con la radio a pieno volume, e fu solo quando si rese conto che si era fermata nel vialetto di una casa vicina che voltò lentamente la testa, come se fosse troppo pesante per muoversi.

La portiera venne sbattuta.

Chris. Ebbe un fremito. Era Chris Snowden e non era con Tar. Indossava ancora il maglione scuro da cheerleader, le scarpe da ginnastica, ma la gonna a pieghe era stata sostituita da un paio di jeans sbiaditi.

E non stava tornando a casa; stava attraversando i giardini che li dividevano per dirigersi verso di lui.

Si schiarì la gola, mentre si domandava che cosa avesse in mente di fare; voleva prenderlo in giro, voleva tentarlo, oppure si trattava di qualche richiesta per il compito di zoologia.

Aspettò che si fermasse ai piedi delle scale, poi cominciò a scendere un gradino alla volta verso di lei.

«Ciao.»

Aveva diviso in mezzo i capelli chiari, raccogliendoli in due trecce che le ricadevano sul seno. Aveva il viso arrossato, e i grandi occhi erano di un blu così scuro da sembrare quasi nero.

Don le sorrise, cautamente. Gli tornò in mente la sua espressione di ansia quando si era accorta che si era fatto male all’occhio, e la rivide quando lei gli si avvicinò di più, con un mezzo sorriso sulle labbra.

«Sembra migliorare», disse.

«Lo sento appena», rispose lui, toccandosi senza nemmeno rendersene conto. La ragazza si voltò a osservare la strada vuota; lui non riusciva a distogliere gli occhi dal suo profilo. «Ho visto… che eri con Tar, prima. Ho pensato che ve ne sareste andati in città.»

Una scrollata di spalle e un’espressione di vago disgusto. «Si è sentito male. Brian aveva della birra in macchina e dopo la partita hanno avuto un’accesa discussione, da veri uomini. Ha perso Tar.» E, puntando verso casa sua: «E anche la mia auto».

«Che schifo.»

«Quello stronzo non mi ha nemmeno aiutata a pulirla. L’ultima volta che l’ho visto stava andando nel parco.» Un sorriso pieno di ironia la sfiorò maliziosamente. «Se Dio esiste, finirà nel laghetto.»

Don sorrise fra sé dell’idiozia dei due ragazzi e fece del suo meglio per non fissarla quando si voltò verso di lui, appoggiandosi alla ringhiera con le braccia e mettendo il mento sul polso. Non stava succedendo davvero; era qualcosa che la sua mente si stava immaginando per punirlo dell’idea che si era fatto di poter comandare il mondo e renderlo migliore.

«Sei stato alla partita?»

«No. Ho avuto … altre cose da fare.»

Alzò le sopracciglia. «Abbiamo vinto.»

«Vinciamo sempre.»

«Davvero?»

«Ogni anno», rispose lui, facendo chiaramente capire che da qualche parte c’era un libro pieno di cose che riteneva più importanti, oppure meno noiose. «Specialmente da quando Tar e Brian fanno parte della squadra.»

«Oh?» lei socchiuse gli occhi. «Vieni da Beacher più tardi?»

«Non so. Forse. Dipende dai miei.»

Si rizzò improvvisamente, e lui temette di aver detto qualche cosa di offensivo. Chris aveva un’espressione scura sul volto, dagli occhi le partivano rughe lunghe e profonde, che la rendevano più vecchia e che trasformavano i suoi capelli soffici e chiari in una parrucca da strega, le sue guance morbide in un muso ossuto. Quella trasformazione lo sorprese e si scostò leggermente da lei, non riuscendo a sostenere il suo sguardo. Guardò a destra e notò con sgomento la station wagon che si avvicinava.

Ah, merda, pensò; non adesso.

«Sei nei guai, eh?» gli disse lei con comprensione.

Non poté fare a meno di annuire.

«Merda. Anch’io.»

«Eh? Tu?»

«Oh, certo», rispose Chris con velenoso disgusto, e ogni parola aveva il rumore di una frustata. «Succede sempre così, ormai mi sto abituando. Mi dicono: conosci qualche ragazzo, va’ a qualche festa, fatti socia di qualche club. Ne avrai bisogno, Christine, per la domanda al college. Avrai bisogno di tutto.» Sbuffò e si sforzò di fare un bel sorriso mentre la station wagon entrava lentamente nel vialetto. «Sai, Don, senza offesa, ma c’è molta merda nella tua scuola.»

«Non mi offendo. È vero.»

Il suo sorriso, quando si voltò verso di lui, era spontaneo; abbastanza persistente per essere notato; poi scomparve non appena Norman e Joyce aprirono le portiere e scesero dalla macchina. Norman fece segno a Don di aiutarli a scaricare le borse della spesa.

«Una ragazza», disse lei sottovoce, «non può nemmeno farsi una scopata decente da queste parti.»

Don avrebbe voluto ridere, afferrarla e trovare un posto buio e nascosto per finire insieme quella conversazione. Avrebbe voluto dirle che sapeva bene quello che provava. Invece, rimase fermo e tranquillo a mormorare un arnvederci mentre suo padre lo chiamava nuovamente in aiuto. Chris gli sfiorò il braccio in segno di saluto, sorrise di nuovo e andò a presentarsi ai Boyd, prima di avviarsi verso casa. Norman la stava osservando; Don afferrò le due borse più pesanti e arrancò verso casa, dove sua madre gli aveva già aperto la porta e lo stava aspettando.

Andò a depositarle sul bancone in cucina e si rincantucciò in un angolo ad aspettare la bufera.

Norman lasciò cadere il suo carico sul tavolo, imitato da Joyce e, insieme, cominciarono a muoversi per la stanza in modo impacciato, mettendo tutto a posto, senza degnarlo di uno sguardo.

«Credevo di averti detto che dovevi restare in casa», disse suo padre.

«Chris sembra una ragazza simpatica», osservò sua madre con un sorriso ansioso.

«Lo è», rispose Don. «Sai una cosa, mamma? Vuole essere scopata e io sono ancora maledettamente vergine.»

«Sei in castigo», gli ricordò Norman.

«Be’, forse dovresti cercare di conoscerla meglio, che cosa ne dici?»

Avanti e indietro. Come i pupazzetti di un orologio a cucii.

«Forse, mamma. Non lo so.»

«Suo padre è chirurgo, sai. Lavora a New York. Ho sentito dire che è piuttosto conosciuto.»

«E allora perché abita qui?» domandò, trasalendo quando Norman spalancò un armadietto vicino alla sua testa e gli lanciò uno sguardo che richiedeva chiaramente una risposta.

«Non saprei», rispose Joyce da sopra una scatola di preparato per torte che soppesò fra le mani prima di rimettere sul tavolo. «Da quanto ho sentito dire, non le mancano certo i soldi. E non è che questo sia il paese più bello della terra. Credo che si tratti della madre…»

Norman fece cadere con violenza una lattina di zuppa sul tavolo e affrontò il figlio. «Voglio sapere che cosa diavolo facevi là fuori, Donald, quando ti era stato detto esplicitamente di non uscire di casa.»

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