Sarà stato anche giovane; ma ormai non lo è più. Poteva anche ricordarsi di tutto quello che passa per la mente di un ragazzo, ma ormai la sua conoscenza era limitata ai libri che leggeva, a ciò che sentiva dire in ufficio, a ciò che gli raccomandava il Consiglio Distrettuale, composto da una manciata di stupidi, tra uomini e donne, che credevano di ricordare che cosa significa essere giovani, come è la scuola e la violenza che a volte i genitori sanno esercitare anche senza dover ricorrere alle mani.
Proprio come Norman e Joyce; anche loro pensavano di conoscere i ragazzi, ma, maledizione, non conoscevano lui.
E la cosa peggiore, la cosa peggiore e più orribile di ogni altra era che, dal momento che non sapeva come fare, come farsi capire, come mostrare loro che non era il fottutissimo figlio morto e nemmeno un poppante o un cucciolotto … la cosa peggiore era che aveva una tremenda paura di avere voglia di ammazzarli.
Passeggiò qua e là, prima vicino alla scuola dove si sentiva la folla gioiosa e la musica della banda, poi verso il centro della città, senza rendersi veramente conto di dove era diretto finché non passò di fronte alla casa di Tracey. Si fermò sul marciapiede a fissare le finestre chiuse, la veranda vuota, sospirando e domandandosi se non fosse stato, per caso, un po’ troppo duro nei confronti di se stesso; dopotutto gli aveva dato un bacio, anche se non aveva la reputazione di concederli facilmente. In ogni caso, non lo aveva incoraggiato e non era stata nemmeno trascinata via prima di potergli dire quando avrebbero potuto rivedersi.
Aveva solo bisogno di pensare.
Quello non era il posto giusto e il campo era occupato dalla partita.
Proseguì a spalle curve, sollevando appena i piedi dal marciapiede, finché raggiunse il Parkside Boulevard; allora si incamminò verso la periferia occidentale della città, osservando i passanti che lo sfioravano senza riconoscerlo, osservando il traffico che scorreva da un punto invisibile all’altro. C’erano insegne vistose nella maggior parte dei negozi, che annunciavano i saldi in onore della festa che sarebbe iniziata mercoledì; c’erano operai sui pali della luce e del telefono, appesi su scale o più comodamente sostenuti da piattaforme mobili, intenti ad appendere grandi medaglioni ovali che rappresentavano l’emblema della città e gli anni della sua annessione; c’erano furgoni enormi parcheggiati ovunque e qualche imbianchino che dava il tocco finale di vernice qua e là e anche addetti ai lavori stradali che riempivano le buche sui lati delle vie e che le ripulivano dai rifiuti.
Nonostante il cattivo umore, rimase impressionato da tutta quella alacrità e, nel giro di un’ora, il colore della sua depressione si trasformò da nero a grigio. Avrebbe pensato più tardi a quello che lo aspettava a casa; in quel momento voleva solo trovare un posto per dimenticare. Gli sarebbe bastata anche un’ora soltanto per capire che cosa era andato storto così improvvisamente.
Alle quattro e mezzo si ritrovò da Beacher a mangiare un hamburger senza rispondere a Joe che gli aveva domandato come mai non si trovasse alla partita. Quando poi sentì le trombe trionfanti per le vie, si rese conto che la partita doveva essere finita e che la squadra locale aveva vinto. Entro pochi minuti, quindi, il posto sarebbe stato pieno di gente e lui avrebbe dovuto stare ad ascoltare le storie, le risate di tutti, avrebbe dovuto vedere le ragazze e i giocatori, rivivendo con loro l’intera partita. Gli ci volle solo un istante per capire che non aveva bisogno di quell’ambiente per pensare. Scese dallo sgabello senza finire il cibo, lasciò il denaro vicino alla cassa e uscì; vide la macchina di Brian che stava accostando, allora girò immediatamente a sinistra e comperò il biglietto del cinema per lo spettacolo pomeridiano. Era lo stesso film che aveva visto con Tracey, ma anche quella volta rimase distratto; si era seduto in prima fila, tenendo le gambe completamente allungate e le mani intrecciate sul torace, senza però distogliere lo sguardo dal centro dello schermo.
Finché il colpo di uno sparo lo fece risvegliare e vide un uomo vestito di nero che cadeva da una finestra con la faccia insanguinata e un’espressione di terrore negli occhi.
Si agitò a disagio, ripensando al desiderio che gli era venuto quella mattina di vedere i suoi genitori morti. Pensò anche alla forza che bisogna avere per ammazzare un altro essere umano, perché chiunque lo può fare se è convinto, ma bisogna saper superare il terrore che attanaglia l’assassino qualche istante prima.
Intanto, un altro protagonista veniva respinto contro una parete, e bersagliato da un proiettile. Lui rimase affascinato dagli effetti speciali che riuscivano a far apparire la scena tanto reale e tanto divertente nello stesso tempo.
Chiuse gli occhi.
Immaginò Joyce, distesa bocconi sul pavimento della cucina, mentre il sangue le sgorgava da una ferita sulla schiena, con la mano sinistra aggrappata alla gamba del tavolo, come se volesse rialzarsi.
Poi, si spaventò al pensiero che gli attraversò il cervello: Così impara, quella puttana.
Dopo il film, si incamminò verso l’entrata del viale del parco e si appoggiò al muro. Teneva le mani in tasca. Si mise a osservare la strada. Il clacson di una macchina che passava lo fece sorridere; era Tar che salutava dal sedile posteriore della convertibile di Chris Snowden. Guidava lei ed erano diretti a New York; lei lo salutò con un largo sorriso prima che un autobus le passasse davanti.
I giocatori di football, pensò, hanno tutte le fortune. Poi sentì le gambe che si indebolivano e si rese conto di quello che avrebbe dovuto fare, invece di continuare a piangersi addosso. La partita era terminata da tempo. Le tribune erano vuote. E il sole stava preparandosi a tramontare all’orizzonte della città.
Si precipitò, correndo, frenando solo quando si accorgeva di essere troppo sotto sforzo; dieci minuti più tardi, giacca a vento per terra e camicia aperta sul ventre, si ritrovò da solo sul campo.
Non c’era nessuno al mondo che riusciva a stargli al fianco quando muoveva le gambe in quel modo, respirando a pieni polmoni boccate d’aria fresca.
Nessuno.
Le scarpe da tennis si muovevano rumorosamente sulla pista, il vento gli spingeva indietro i capelli e avvertiva un dolore non spiacevole al fianco sinistro.
Era solo sulla pista; quello era il suo mondo, di nessun altro.
Il suo mondo, dove non c’erano trappole, ostacoli, battaglie.
Per un breve istante, aveva desiderato ammazzare i suoi genitori e in quel momento si era dimenticato della Regola: non sfogare mai la sua rabbia sugli altri, nemmeno sui tuoi nemici.
Invece di dar sfogo alla rabbia e al cattivo umore, bisogna parlare. I bastoni e le pietre possono rompere le ossa, ma le parole non fanno male a nessuno.
Cristo, com’era sbagliato! Sbagliato e pietoso!
Le parole erano ciò che i suoi usavano sempre per litigare — sibilando sottovoce, con cattiveria, con veleno. Usavano lamette verbali, invece di clave reali, per ferirsi reciprocamente a morte. Se n’era reso conto soltanto negli ultimi tempi, eppure nessuno dei due riusciva a colpire l’altro. Non erano ancora arrivati a tanto.
Be’, forse, anche quella era una Regola, pensò mentre iniziava il secondo quarto di miglio, ma era piuttosto idiota. A volte sapeva, lo sapeva e basta, che sarebbe stato meraviglioso prendere a pugni in faccia Brian Pratt.
Il problema era che bisognava sapere che cosa fare per cimentarsi in una rissa e lui non lo sapeva. Il secondo sabato dal suo arrivo ad Ashford, quando aveva nove anni, Brian era andato da lui con un gruppetto di amici. Don si trovava in giardino a giocare con i soldatini, da solo, e Brian gli era saltato addosso. Non c’erano state presentazioni, né preavvisi, né minacce. Pratt gli era saltato addosso, l’aveva buttato a terra e l’aveva preso a pugni sulla schiena una dozzina di volte. Poi era tornato verso la sua bicicletta e se n’era andato. Don aveva urlato per il dolore e la confusione, ma non era andato da suo padre perché sapeva già che cosa gli avrebbe detto: Devi cavartela da solo, figliolo, devi dimostrare che tu sei meglio di loro.
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