Charles Grant - La carezza della paura

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La carezza della paura: краткое содержание, описание и аннотация

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Quale sarà la prossima vittima dello squartatore, il mostro del New Jersey? Il timido Donald Boyd, capace di parlare solo con creature immaginarie di sua invenzione, assalito dal mostro, viene salvato da uno stallone nero che da allora lo difenderà sempre, apparendo dal nulla. Per Donald è la lotta contro una nuova inspiegabile ossessione.

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Lui abbassò lo sguardo verso la punta delle scarpe e ingoiò il nodo che gli stringeva la gola. Cominciò a tamburellare leggermente sul muro con la mano sinistra. Sentiva caldo al torace, caldo alla nuca, e percepiva lo scandire dei secondi come se fossero pietre gettate in una pozza d’acqua. Joyce si diresse verso la porta d’ingresso, falsamente alle prese con chissà che cosa: rimaneva soltanto per dovere, ma aveva una voglia matta di andarsene perché sapeva già che cosa sarebbe successo.

Quella era la Regola; la famiglia non doveva mai sottrarsi alle discussioni.

«Sono in castigo», disse Don. «Questo non significa che non posso stare seduto sotto una stupida veranda, no?»

«Lo sai benissimo che cosa significa», ribatté Norman.

«No», protestò Donald. «Non so benissimo che cosa significa, perché non mi è mai stato spiegato prima, perché non sono mai stato rinchiuso in casa, prima.»

Joyce si coprì la bocca con la mano, Norman si aggrappò all’angolo del tavolo e per un momento Don temette che si avventasse contro di lui.

Poi volse lo sguardo verso sua madre. «Mamma, che cosa ci fanno le mie cose in soffitta?»

«Le tue cose?»

«Quello che c’era sui miei scaffali. Gli animali. Li hai tolti tutti, ricordi? Vorrei sapere perché si trovano in soffitta. Non ho speranza di rivederli al loro posto?»

«Va’ nella tua stanza», disse Norman, prima che lei potesse rispondere. «Va’ in camera tua e non tornare giù finché non ti sarai deciso a moderare il linguaggio.»

«Sam», disse Joyce.

Il tempo si fermò, non ci furono più rumori; niente aria.

Don alzò un pugno mentre Norman guardava sorpreso sua moglie con espressione di disgusto.

«Oh», mormorò lei e si precipitò fuori dalla stanza.

Per un istante Don vide rosso, prima di potersi rendere conto di quello che stava pensando. Abbassò il pugno, si sforzò di aprire le dita e si diresse verso la scala, mentre suo padre lo seguiva. Sul pianerottolo si fermò a guardare verso il basso.

«E se non mi dispiacesse?» disse in tono piatto.

In quel momento si rese conto, seppe con estrema sicurezza, che se suo padre avesse fatto un solo passo, un solo gradino, si sarebbero picchiati. Avrebbe colpito suo padre o forse sarebbe stato suo padre a scagliare il primo pugno. Aveva visto scene come quella nei film e le aveva giudicate stupide, aveva pensato che non avrebbero potuto succedere nella realtà. Fino a quel momento, fino al momento in cui vide lo sguardo di suo padre che lo fissava senza degnarsi di nascondere l’odio che provava, come se fosse uno sconosciuto che lottava contro se stesso perché le Regole dicono che non si può picchiare il proprio figliolo quando ormai ha diciotto anni.

«Fa’ come ti ho detto», disse deciso Norman.

«Vado», rispose lui, senza concedere altro.

Sedeva a gambe incrociate sul letto, con la schiena appoggiata al muro e le mani in grembo.

Evitava deliberatamente di guardare gli scaffali, la scrivania pulitissima, la finestra, il pavimento.

Si immaginava lo stallone, intento a galoppare per i boschi, e pensava.

Per prima cosa pensò a come sarebbe stato da orfano e a come avrebbe potuto trovarsi un lavoro senza lasciare la scuola.

Pensò a Tracey e al motivo per cui non gli aveva proposto di uscire nuovamente con lui, oppure di vedersi a scuola o in giro.

Pensò a Brian e a Tar, e a Fleet, che non era sempre insopportabile, e al motivo per cui veniva chiamato Paperino, quando non era l’unico Donald della scuola; e poi c’era altra gente che aveva nomi più strani e più buffi del suo, altra gente che meritava più di lui di essere presa continuamente in giro.

Pensò a Chris, pensò a come poteva essere fatta sotto il maglione e si domandò quante persone sapessero esattamente com’era, e pensò al motivo per cui era andata a parlargli.

Pensò alle Regole.

Pensò a come avrebbe dovuto fare per venirne fuori prima di crollare e finire in un letto, come un invalido moribondo.

Infine non pensò più a niente.

A mezzanotte si risvegliò.

Per un istante non seppe aggrapparsi a nessun pensiero, ma poi sorrise sentendo dentro di sé una sosta di assestamento. Si guardò il torace e rimase sorpreso nel vedere che aveva i vestiti bagnati; si toccò i capelli, madidi di sudore; toccò il letto e lo sentì umido. Ma non si mosse, perché aveva ancora bisogno di assestarsi. Era l’unico modo in cui riusciva a descrivere quella sensazione: una massa leggera raggruppata su una distesa piena di orizzonti, qualcosa che si muoveva e si assestava e che poi si trasformava in qualcosa di più solido, di più compatto, di incredibilmente più duro.

Allungò le mani, la toccò ed era calda, era rossa e si adattava perfettamente alla forma della sua mano. Poi, per un istante, mentre la osservava, la paura rimase sospesa sopra di lui, come una nuvola minacciosa che brontola prima di emettere il primo tuono. Eppure, nonostante il caldo, il rosso, la durezza, si trattava di qualcosa di estremamente confortante, qualcosa di familiare.

Era sua; era lui.

Un sorriso, appena abbozzato.

Si spostò sull’orlo del letto, toccò terra con i piedi e si aggrappò al materasso.

Accese la luce sopra la testiera e distolse lo sguardo dalla lampadina per abituare gli occhi. Si sporse in avanti con eccitazione, preparandosi a spiegare al suo amico quanto gli era appena successo.

Ma non ci riuscì.

Riuscì solo ad aprire la bocca per emettere un urlo senza suono.

Il poster era ancora là, attaccato sopra la scrivania.

La foresta, la strada, il sole che tramontava.

Il poster era là.

Ma qualcuno aveva cercato di distruggere il cavallo nero. Era leggermente graffiato, come se un coltello o una penna avessero cercato di grattare via l’immagine per lasciare soltanto il paesaggio.

7

L’alba di domenica non venne illuminata dal sole. Pioveva, un acquazzone potente che riempiva i tombini delle strade con una velocità inarrestabile e trasformava i vialetti delle case in torrenti marroni. Aggredite dall’acqua, le foglie cadevano per strada e sui marciapiedi, e il vento attorcigliava intorno ai cavi della luce le decorazioni per la Festa di Ashford attaccate ai lampioni del viale. Il parco era deserto. Una manciata di pedoni si affrettava di negozio in negozio, affollando le pasticcerie piene di focaccine dolci e calde, torte e tartine. Le macchine transitavano rumorosamente. Gli autobus schizzavano acqua dalle pozzanghere fino all’altezza delle spalle. I fari erano appena sufficienti per vederci anche in pieno giorno.

Quando il temporale si attenuò, continuò a piovigginare. E sembrava più freddo per via dell’oscurità. Le pozzanghere non avevano riflessi, dalle finestre non si vedeva niente di chiaro; il vento era calato, ma la gente continuava a tener chiusi i baveri e aperti gli ombrelli e quando si sentiva il rintocco di una campana proveniente dall’altra parte della città, rimbombava come la sirena di una nave che sta per fare il suo ingresso in porto.

Anche nella stanza di Don la luce era tetra, ma lui non se ne accorse. Sedeva sul letto con la schiena appoggiata alla parete, e fissava il poster con gli occhi gonfi e arrossati e le mani immobili sui fianchi. Aveva indosso solo i calzoni corti e il torace si muoveva appena al ritmo del respiro.

Sua madre era andata a controllarlo subito dopo la colazione e lui l’aveva fissata finché non l’aveva vista girarsi e chiudere la porta. Suo padre non si era fatto vedere.

Non gliene importava niente.

Stava concentrandosi sulla preparazione di una nuova lista di Regole.

Squillò il telefono.

Tracey balzò in piedi dal divano e si precipitò in cucina, ma non fece in tempo ad arrivare perché sua madre aveva già risposto. Una zia, almeno così sembrava, e Tracey rimase ad aspettare finché capì che doveva trattarsi di una delle solite conversazioni domenicali lunghissime che si mescolavano agli aromi della cena e alla tranquillità dei pomeriggi, quando la casa era immersa in una pace ordinata, per desiderio di suo padre.

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