Un ragazzo. Una vittima.
Il rumore di passi nel corridoio gli fece alzare lo sguardo in tempo per vedere un uomo in giacca bianca che passava davanti alla sua porta aperta.
«Ciao, Ice.»
I passi si fecero esitanti e tornarono indietro. Sulla porta si affacciò un uomo basso, dai capelli riccioluti e dallo sguardo costantemente malinconico. «Che devozione! Non ti capisco», gli disse.
Verona gli sorrise, alzò il dito medio e lo batté su un foglio di carta verde. «Questa cosa qui.»
Ice Ronson si allungò senza spostarsi dalla sua postazione. «Esatto, Tom. È un pezzo di carta.»
«È il caso Boyd.»
«Okay. È un pezzo di carta che riguarda il caso Boyd.»
Tolse un pezzo di gomma da masticare dal taschino della giacca e se lo mise in bocca. Fece un palloncino e lo risucchiò prima che potesse scoppiare. «E allora?»
«E allora, chi ci ha lavorato sopra? Non riconosco la firma qui sotto.»
Alzò il foglio e aspettò che Ronson attraversasse la stanza per andare a vedere. «Cristo, voi altri non sapete nemmeno scrivere i vostri nomi, eccetto che sugli assegni.»
«Ehi, amico, non è facile stare in trincea», ribatté Ronson, estraendo un paio di occhiali dallo stesso taschino della gomma. «Dobbiamo lavorare con sostanze chimiche particolari, con misure delicate, tenendo continuamente presente che la vita di un uomo è appesa a un … merda, ma è impossibile! Perché non ti prendi una lampada decente, eh? Si diventa ciechi qui dentro.» Spostò il documento sotto la luce fluorescente che pendeva dal soffitto. «Oh, sì, è Adam. È la sua firma.»
«Adam?»
Ronson sospirò per l’ignoranza della gente con cui doveva lavorare. «Adam Hedley, non lo conosci? Un chimico davvero brillante che perde tempo a insegnare al liceo. Gli piace il lavoro della polizia e lo fa nel tempo libero, quando non deve curare i mocciosi. Sai, potrebbe fare il libero professionista, guadagnerebbe il quadruplo di adesso. È uno stupido, se vuoi sapere la mia opinione. Ma è un genio.»
Verona annuì. «Buon per lui. Ma anche Einstein si è sbagliato, una volta in vita sua.»
«Anche tre.»
«Ice, guarda, c’è qualcosa che non va, vero?»
Ronson alzò le mani. «Tom, ti ho detto che l’ha fatto Adam.»
«Allora l’ha fatto sbagliato.»
Ronson si appoggiò sull’orlo della scrivania e scosse la testa. « Io posso farlo sbagliato, capo, ma non Adam. È un maniaco. Ripete un test un miliardo di volte e continua a spedire reperti all’FBI, nel caso si fosse sbagliato.»
Verona si appoggiò all’indietro. «Be’, questa volta si è sbagliato.»
Ronson scosse la testa; Verona stava dichiarando l’impossibile.
Il detective sospirò, prese un fazzoletto e si asciugò la faccia. «Ice, leggi.»
Finito di leggere, piegò la cartelletta. «Interessante.»
«Interessante? Merda! »
Il chimico scosse la testa e si tolse gli occhiali, si mise in bocca un ulteriore pezzo di gomma da masticare e fece un altro palloncino mentre si dirigeva verso la porta. Qui appoggiò un braccio contro lo stipite e si girò leggermente dicendo: «Credo che se Adam ha ragione, e probabilmente è così, avrai qualche problema, Dick Tracy».
«Lo stesso vale per te, amico», rispose Verona senza sorridere, spostando la sedia verso la finestra e grattandosi la guancia, mentre tornava a immaginare Susan che stava ascoltando la musica e si augurava di mancarle almeno quanto lei mancava a lui.
Poi guardò torvo il riflesso scuro sul vetro, prese il cappotto dall’attaccapanni e uscì. Aveva intenzione di prendere un’auto e di andare a fare un giro per ripulirsi la mente da tutti i pensieri. Forse così sarebbe riuscito a trovare una spiegazione sul motivo per cui non erano state rinvenute tracce di legno sul corpo di Falwick. E sul motivo per cui sul bastone che aveva usato il giovane Boyd non erano stati rilevati sfilacciamenti, o perdite di legno.
Poco prima di raggiungere l’uscita si fermò a riflettere, poi cominciò a scendere le scale verso il pianterreno e si diresse verso la stanza sul retro, dove venivano tenute le prove.
Aprì la pesante porta di ferro, se la richiuse alle spalle e si incamminò tra le pile di reperti sistemati sugli scaffali. Quando trovò la scatola di Boyd, la prese e si sedette sul pavimento mettendosela fra le gambe. Non c’erano molte cose — frammenti di stoffa in sacchetti di plastica, pezzi d’erba e di terra, e ogni sacchetto era chiuso con un nodo all’estremità. La luce era bassa, proveniva da un’unica lampadina in mezzo alla stanza, ma tenendo la mazza vicino agli occhi riuscì a vedere bene e scosse la testa di fronte alle strisce scure sulla corteccia. Soppesandola, si rese conto che anche solo un paio di collisioni contro il cranio di un uomo sarebbero state sufficienti per provocare qualche scheggiatura.
Ma lo Squartatore era morto e la chiusura del caso era stata decisa da un funzionario sollevato e giubilante che l’aveva riferito al sindaco, la cui prima reazione era stata quella di domandarsi se era il caso di dichiarare festa nazionale.
Si alzò, soppesò ancora il bastone, lo rimise a posto, riordinò la scatola e aprì la porta prima di spegnere la luce.
Non era stato il ragazzo.
Maledizione, non era stato il ragazzo.
Poi lo sentì. Il rumore di passi che si dirigevano a destra, verso di lui, quindi a sinistra, lungo il corridoio della caldaia. Aspettò, ascoltando il rumore dell’acqua che gorgogliava e sbuffava nei tubi lungo il soffitto.
«Ice?»
I passi si stavano avvicinando, lenti, regolari, e Verona mosse inconsciamente la mano verso la pistola che teneva sotto l’ascella. Si rimproverò per la tensione che avvertiva, ma non riuscì a frenarla quando vide l’ombra che si stava ingigantendo sulla parete.
«Ronson, maledizione, smettila di giocare!»
I passi si fermarono, ma l’ombra rimase.
Verona tastò alle sue spalle con la mano libera e girò la maniglia della stanza delle prove. Era troppo vecchio, a quarantatré anni, per avere delle allucinazioni, ma sapeva con sicurezza che ciò che aveva visto non era umano.
I passi ricominciarono a muoversi, sordi e leggeri.
L’ombra si fece più scura, si allargò nell’aria calda del corridoio impregnata di polvere.
Aveva la pistola e la porta era aperta, ma abbandonò qualsiasi idea di fuga dalle scale quando sentì lo sbuffo di un animale, quando i passi si fecero più vicini e le luci si spensero.
Verona si precipitò nella stanza, chiuse la porta e fece scattare la serratura; continuò a tenere la pistola in mano mentre premeva un orecchio contro la porta di ferro, ben sapendo che non avrebbe sentito niente, ma nella speranza di udire almeno le vibrazioni nel caso l’intruso avesse tentato un attacco.
Arretrò leggermente quando ebbe la sensazione che qualcosa si fosse fermato fuori dalla porta. Sussultò urtando con la spalla contro uno scaffale e bestemmiò quando sentì che qualcosa grattava sulla porta.
Non c’erano altre uscite, non c’erano finestre, nessun condotto per l’aria o per il riscaldamento; non c’era nessun altro posto dove andare eccetto la parete sul retro, dove avrebbe potuto appoggiarsi ad ascoltare il fruscio, il suo cuore, e dove avrebbe sentito la pistola diventare calda e scivolosa tra le sue mani.
Norman stava parlando con un reporter, Joyce stava conversando con il sindaco e Don sedeva rigido sulla sua sedia, augurandosi di andarsene alla svelta.
Sembrava che nessuno avesse aspettato altro che l’ultima nota dell’ultimo pezzo musicale per buttarsi su di lui, per stringergli le mani, per congratularsi o anche solo per stargli vicino così da essere ripresi da qualche fotografo. Alla prima opportunità si era guardato attorno, ma i Quintero se n’erano già andati e quando aveva chiesto a suo padre se poteva andare da Beacher, lui gli aveva risposto che sarebbe stato meglio farsi una bella dormita. Non sforzarti, aveva detto Joyce prudente, non così alla svelta.
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