Se ne andò subito, senza rumore, lasciando Don sulla sedia a fissare il camino. Pensò di essere nei pasticci, ma non sapeva di che tipo. Non c’era nessuna prova che implicasse qualcun altro, e meno di tutti lo stallone, e poi sarebbe stato deriso per il resto della vita se avesse anche solo tentato di spiegare quello che era realmente successo.
Sbatté gli occhi e li chiuse.
Aveva un sapore amaro in bocca.
Poi alzò i pugni sopra la testa e li fece cadere violentemente sulle gambe, sui braccioli, sulla fronte, quindi si diresse verso il caminetto per prendere a pedate i mattoni.
Stava succedendo di nuovo.
Gesù Cristo, persino la polizia stava cercando di portargli via qualcosa che apparteneva solo a lui. Si voltò, tastando con le mani alla ricerca di qualcosa da poter lanciare e, non trovando niente, se le rimise in tasca. Con le gambe rigide, attraversò la stanza, dirigendosi verso le scale, decidendo se fosse il caso o meno di piangere. Ne aveva certamente voglia e si portò una mano sugli occhi mentre capiva che stava ancora una volta per autocommiserarsi. Nessuno stava cercando di portargli via niente. Verona non era sicuro, perché non aveva nient’altro che uno stupido sospetto. E Don non era uno stupido — non era stato tanto accecato dall’attenzione di tutti da non accorgersi che avevano tirato un grande sospiro di sollievo per la morte di Falwick. Non l’avrebbero fatto resuscitare, nemmeno il suo ricordo, soltanto perché un detective si sentiva un po’ snobbato.
Squillò il telefono mentre stava appoggiando il piede sul primo gradino.
Fissò l’apparecchio, domandandosi se fosse un altro giornalista, o qualcuno che cercava i suoi genitori. Solo al quarto squillo gli venne in mente che poteva anche essere per lui.
Infatti.
Era Tracey.
«Stai bene?» fu la prima cosa che gli domandò dopo averlo salutato.
«Certo.» Si era seduto a gambe incrociate per terra, di fronte alla cucina. «Perché?»
«Hai un tono orribile.»
«Grazie, ne avevo bisogno.» Una voce in sottofondo lo fece tremare. «È Jeff?» domandò senza espressione. «C’è Jeff a casa tua?»
«No», rispose. «Sono qui. A casa sua, intendo dire.»
«Oh.»
«Oh», gli fece eco, cambiando tono. «Perché … perché, Donald Boyd, sei geloso?»
Il fremito divenne un sussulto. «Chi? Io?»
Lei si mise a ridere. «Mio Dio, non ci posso credere.»
Non le disse niente. Sembrava stare bene e dal modo in cui rideva forse non c’era proprio niente di cui essere geloso; comunque, questo ancora non spiegava come mai lei si trovasse in quella casa invece che nella sua. Quando glielo chiese, ci fu una pausa e sentì un rumore alla porta.
Sbatté lentamente le palpebre. Nel buio della cucina credette di aver visto due puntini di luce verde.
Tracey disse qualche cosa. Scrutò ancora e le chiese di ripetere.
«Qualcuno mi ha inseguito», ripeté lei.
«Cosa?» Don si alzò di scatto, strappando quasi il filo della cornetta.
«Se vuoi sapere la verità, veterinario, stavo proprio venendo a casa tua, quando qualcuno ha cominciato a darmi la caccia. Non so chi fosse, ma mi ha spaventata a morte e la casa di Jeff era la più a portata di mano.»
Attraverso il vetro della finestra, un guizzo bianco.
«Chi era?» domandò, augurandosi di sembrare veramente interessato mentre si muoveva carponi nell’ingresso.
La luce bianca si muoveva come se fosse nebbia.
«Te l’ho detto, non lo so. Jeff è uscito a dare un’occhiata, ma non ha visto nessuno.» Fece una pausa. «Non lo so. Forse è stata solo la mia immaginazione.»
«È probabile.» Oh, mio Dio, pensò. «Chi altro potrebbe essere se non Pratt, che ne dici?»
La sua risata questa volta fu leggermente forzata. «Forse. È veramente incazzato con te, sai.»
«Così ho sentito dire.»
Un tonfo attutito sulla porta.
«Davvero?»
«Certo.» La voce di Don sembrava uscire dalla luna; si sorprese che lei non lo notasse. «Me l’ha detto Chris quando è venuta in ospedale.»
«Oh?»
Adesso era il suo turno e lui si chiese che cosa avesse fatto per meritarsi due ragazze nello stesso momento.
La voce di Tracey si affievolì e lui dovette sforzarsi per sentirla mentre diceva: «Sono orgogliosa di te, Don, volevo dirti questo, ma non ne ho avuto la possibilità al parco.»
«Già, be’…»
Un altro tonfo, e nella luce bianca vide due occhi verdi allungati.
«Mi piacerebbe venire da te, se posso.»
«Cosa?» Era in piedi, ormai, con i denti che stringevano il labbro inferiore. «Scusami, Trace, che cos’hai detto?»
«Don, vorrei venire da te. Ho … bisogno di te.»
Luce bianca, occhi verdi.
«Piacerebbe anche a me», le rispose. «Ma dovremo aspettare, okay? I mostri stanno per tornare a casa. E io dovrei essere a letto.»
«Cosa? Ti senti bene?»
«Ti ho detto di sì. È solo…» Ci pensò bene, pensò alla possibilità di parlare con qualcuno di ciò che era successo, di quello che stava pensando, del fatto che sperava di non essere sul punto di perdere la ragione.
La porta tremò e lui chiuse gli occhi e domandò scusa mentalmente a Tracey.
«Senti», disse, «ti posso vedere a scuola, domani?»
«Certo. A pranzo?»
«Okay.»
«Jeff vuole sapere se verrai alla partita.»
Via, pensò allora; vattene via dal telefono!
«Non lo so, credo di sì. Dipende da mia madre, credo. Devo…» Vide la luce sbiadire, il verde sparire. «Merda, ecco che arrivano. Devo andare.»
«A pranzo», disse lei e lui riappese con violenza il ricevitore prima che potesse salutarlo e si precipitò in cucina.
Voleva aprire di scatto la porta, uscire allo scoperto, ma esitò, strofinandosi le mani sulle gambe e morsicandosi il labbro inferiore.
Uscire in quel momento sarebbe stato veramente da pazzi; guardare in un giardino vuoto avrebbe voluto dire…
Chiuse gli occhi. Strinse le mani. Respirava a fatica.
Aprì la porta.
«Oh, Cristo», sussurrò. «Oh … Cristo.»
Si fermò sotto l’acero, macchiato dalle ombre, illuminato di tanto in tanto da lampi distanti. Ma non riusciva a vederlo per intero, non riusciva a vederlo bene, era nero, più nero della notte, e la pelle baluginava solo quando si muoveva.
Si premette una mano sulla fronte per controllare di non avere la febbre, poi avanzò.
Il cavallo mosse la testa mentre gli occhi verdi lo osservavano.
Riusciva a respirare a malapena; l’aria era troppo rarefatta e le gambe erano pronte a cedere mentre attraversava il prato.
Occhi verdi. Lo osservavano.
Aveva voglia di sorridere, o di urlare, invece si limitò ad allungare la mano, continuando ad avanzare, augurandosi che lo stallone non annusasse la sua paura, ma invece la sua sorpresa nel vederlo così grande, così alto, la sua meraviglia di fronte al suo modo di guardarlo con un solo occhio lampeggiante.
«Io…»
L’animale si allontanò, emettendo sbuffi di vapore grigio sopra la testa.
«Sono io», gli disse dolcemente, «sono io, amico, sono io.»
Il cavallo si spostò e fiammate verdastre si arrotolarono sul tronco dell’acero, fiamme che bruciarono, arrostendo una gemma nera sulla corteccia.
Don si fermò, deglutì, allungò ancora la mano e fece un passo avanti. Si trovava a meno di due metri dal suo muso e aveva una voglia matta di toccargli il pelo, sentirgli la carne e le ossa. Dopo aver fatto un altro passo, scosse la testa e fece un verso rauco con la gola.
«Va bene», gli disse con calma. «Va tutto bene, non agitarti.»
Ti prego, Dio, pensò; ti prego, Dio, non sono pazzo.
Il cavallo lo osservò con attenzione, emettendo fumi grigi e fiammate verdi per un minuto buono, poi abbassò la testa e si spinse verso il braccio di Don, lo fece arretrare e lo seguì finché Don non riuscì ad accarezzargli la criniera di seta, il collo vellutato. Era carne vera e fredda allo stesso tempo; i muscoli si agitavano, una zampa si alzava, e lui non si vergognò quando sentì cadere le lacrime, quando sentì che stava piangendo, anche se sapeva che non poteva essere.
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