«Don?» chiamò sua madre dalla porta d’ingresso. «Ti senti bene?»
«Sì», rispose prontamente, facendo scivolare il portachiavi nella tasca. Joyce sussultò quando si accorse del danno.
«Oh, Cristo, Dio mio, guarda qui», esclamò mentre Norman riappariva dal suo giro attorno alla casa, respirando affannosamente e massaggiandosi il fianco con la mano. Allungò una mano tremante, lui gliela prese e la tirò verso di sé, guardando la strada vuota. «Chi è stato?» domandò lei.
«Come diavolo faccio a saperlo?» rispose. «Diavolo, costerà una fortuna farla riparare.»
Joyce fece un passo per avvicinarsi, il vetro scricchiolava sotto le sue pantofole. «Vado a prendere una scopa», disse. «Non possiamo lasciare tutta questa roba per terra. È pericoloso. Si può far male qualcuno.»
«Giusto.»
«Senti, è meglio chiamare la polizia. Don? Va’ a prendere la scopa che sta in garage, per favore. Dammi una mano.»
Don alzò lo sguardo. Nessuno dei due lo stava guardando. Norman fissava l’ammaccatura sul cofano mentre massaggiava meccanicamente la schiena a sua moglie; Joyce stava cercando di togliersi i capelli dagli occhi. Finalmente lei lo guardò, gli indicò il garage, poi spinse gentilmente Norman verso casa.
Don si alzò, si pulì alla meglio i jeans e si piegò per afferrare il manubrio e trascinare via la bicicletta.
«Lasciala lì», disse Joyce. «Ci potrebbero essere delle impronte digitali o qualcosa del genere.»
Lui andò a prendere la scopa, gliela porse e tornò in casa, dove sentì suo padre che stava spiegando alla polizia quello che era successo. Dopo aver riappeso, Norman disse a Don di mettersi una maglietta prima che arrivassero i poliziotti. Non si sa mai, disse. Potrebbero esserci in giro ancora dei giornalisti e quando annuseranno la storia, torneremo a essere l’attrazione del circo.
«Maledizione», imprecò, mentre si dirigeva fuori dalla porta. «Con la fortuna che ho, domani pioverà di sicuro.»
La polizia arrivò e se ne andò in meno di un’ora. Fecero accurate ricerche in giardino, ma non trovarono niente, nessuna traccia, e spiegarono ai Boyd che in casi di quel tipo non si poteva fare molto se nessuno aveva visto niente e non c’erano informazioni di nessun genere. Nessuno era uscito a dare un’occhiata per vedere come mai fosse arrivata la macchina della polizia senza la sirena accesa; nessuno aveva ascoltato la conversazione perché Joyce aveva chiesto di parlare a bassa voce, di bisbigliare. E non avevano domandato niente a Don perché Norman aveva spiegato che il ragazzo stava con lui, dentro casa, quando era successo l’incidente.
Dopo che se ne furono andati, Don trascinò la bicicletta in un angolo del garage e si mise a osservare suo padre che stava togliendo dal sedile i pezzi di vetro. Joyce era in casa a preparare il caffè.
Premette un bottone e il portone del garage si abbassò. Norman alzò lo sguardo e sorrise ironicamente a suo figlio. «A volte si vince, a volte si perde, vero?» disse. «Mi spiace per la bicicletta.»
«Già.»
Don tremò per una folata d’aria e si voltò per tornare in casa, ma si fermò quando vide che qualcosa di bianco ondeggiava nei cespugli di fronte alla casa. Si avvicinò e raccolse una piuma dall’albero.
«Papà?»
Norman emise un verso.
Ne aveva trovata un’altra sul cespuglio accanto, e altre due per terra. «Ehi, papà?»
«Un minuto, okay? Non vorrei tagliarmi un dito con questa roba.»
Spostò dei rami e la bocca si aprì in un’espressione di stupore.
Per terra, sotto il cespuglio, c’era il corpo di un uccello, aveva il collo attorcigliato, gli occhi chiusi e le piume ricoperte di sangue.
«Papà, guarda!»
Norman lo spinse da parte e si inginocchiò, si zittì quando vide la mulilazione e sfiorò il volatile con un piede.
«Cristo», disse. «Era una maledetta anatra.»
Meraviglioso, pensò Tar vedendo il signor Boyd che sollevava con un badile i resti dell’uccello morto e andava a metterli in un sacchetto dei rifiuti, voltando la testa. Don era sul vialetto, con le mani in tasca, e fissava la strada. Per un istante Tar aveva pensato di essere stato visto da Paperino, ma non ci fu nessun segno di allarme. Sentì il coperchio della pattumiera che si chiudeva con frastuono, poi il preside uscì dal garage e circondò le spalle di Paperino. Entrarono in casa in quella posizione, la porta si richiuse alle loro spalle e la luce del porticato venne spenta.
«Eccellente», sussurrò Tar. «Meraviglioso.»
Si era nascosto dietro il capannone vuoto degli attrezzi del vecchio Delfield, ma quando infine erano arrivati i poliziotti si era infilato tra una pila di cassette di arance e il muro. Non avevano cercato con molta cura, non lo avevano visto e, dopo essersi assicurato che non sarebbero tornati, si era diretto verso l’abitazione per sbirciare dall’angolo che dava sul davanti, protetto dalle siepi e da una quercia che stava sul marciapiede. Da quel punto era stato in grado di osservare tutto, gli spiaceva soltanto di non poter ascoltare quello che i due bastardi si stavano dicendo.
Aspettò altri cinque minuti, leccandosi le labbra e sorridendo, prima di farsi largo tra i cespugli del vialetto adiacente. Camminò lentamente, nel caso qualcuno stesse osservando, con la mazza da baseball stretta contro la gamba e la giacca da baseball indossata a rovescio. Non appena raggiunse l’angolo, gettò la mazza nel canale per l’acqua piovana, si riaggiustò la giacca e si mise a correre velocemente, tenendo la bocca aperta, come se stesse ridendo silenziosamente. Non vedeva l’ora di tornare a casa e chiamare Brian, di far sapere a quello stronzo che Tar Boston non era solo uno stupido pecorone.
La via della scuola era deserta, e il marciapiede gelato scricchiolava sotto le sue scarpe da tennis. Dopo aver raggiunto l’angolo più vicino, si rese conto del vento freddo che gli tagliava le guance e i polmoni e tirò su con il naso per evitare che iniziasse a colare. In quel momento rimpianse di non avere la macchina, il pezzo di ferraglia vecchio di dieci anni che suo padre gli aveva comperato il giorno del suo ultimo compleanno. Non funzionava bene, a volte si rifiutava persino di partire, ma il riscaldamento andava alla perfezione e in quel momento gli avrebbe fatto comodo.
Rimpianse anche il lusso dell’automobile di Pratt.
Rallentò, corrucciando il viso.
Brutto stupido — era così che l’aveva chiamato Pratt durante l’ultimo allenamento di quel giorno — brutto stupido, tirati subito fuori dai coglioni prima che ti sbatta al muro. Doveva avere qualcosa che lo rodeva, sicuramente, perché aveva rivolto solo un paio di volte la parola sia a lui che a Fleet, includendo anche l’ora di esercizi ai pesi che avevano fatto quando l’allenatore se n’era andato. Era come se fosse incazzato o chissà che altro, e Tar non era riuscito a farsi spiegare che cosa ci fosse che non andava.
Fleet era nello stesso stato, ma era diverso. Tornando a casa quel cretino si era comportato come se stesse sfuggendo la polizia o chissà che altro e aveva continuato a guardarsi alle spalle, tanto che Tar si era innervosito ed era andato quasi a sbattere contro un autobus.
Ma Fleet non aveva detto niente.
E quando Tar si era ritrovato a casa a mangiare la sua cena, gli era venuta l’idea di punire Paperino per avere incolpato lui e Pratt di aver gettato tutta quella merda nel porticato di Hedley. Un’idea veramente fantastica. Un colpo per quel fottuto preside e per Paperino nello stesso momento. Formidabile. E avrebbe chiuso definitivamente la bocca a Brian. L’idea di quell’uccello morto gli era venuta passando davanti alla vetrina del macellaio, che esponeva un’anatra. Dopo era stata faccenda da poco fermarsi alla casa di un amico con due fratellini che tenevano quattro anatre in una gabbia in giardino. Non aveva nemmeno avuto bisogno di guardare l’uccello; l’aveva colpito con un bastone mentre si dimenava in una sacca di tela che gli aveva calato sulla testa; poi gli aveva tirato il collo. Non si era nemmeno sporcato di sangue. Neanche quando l’aveva fatto cadere tra i cespugli, l’aveva guardato. Non ne aveva avuto bisogno. Non gliene importava niente se i Boyd lo trovavano quella stessa notte o il mattino successivo.
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