Un’altra occhiata e inciampò.
Sopra la massa nera, nel buio, si vedevano due macchie verdi.
E sotto, un bagliore di scintille verdi si muoveva con lo stesso ritmo.
Recuperò l’equilibrio con l’aiuto delle braccia e sollevando le ginocchia, ma l’angolo distava ancora più di cinquanta metri. Sarebbe stata catturata. Chiunque la stesse inseguendo l’avrebbe presa, e lei sarebbe morta, perché non era morta quella notte.
Sarebbe stata ammazzata da un’ombra dagli Occhi verdi.
Un singhiozzo, ti prego, non aver paura, e qualcosa la sospinse attraverso un prato in direzione di una porta illuminata. Salì tre gradini di mattoni, trovò il campanello con il dito, lo mancò, lo ritrovò e lo premette forte e a lungo finché non si spalancò la porta e comparve Jeff. Lei lo scansò con violenza.
«Chiudila!» gli disse e, vedendo che non si muoveva abbastanza alla svelta, la afferrò e la richiuse appoggiandocisi contro e chiudendo gli occhi.
«Trace?»
C’erano due finestrelle di fianco alla porta. Jeff scostò una tendina bianca, guardò fuori e rabbrividì.
«Trace, che cosa c’è che non va? Ti stava inseguendo qualcuno?»
Don aveva sistemato la sedia della scrivania in modo da poter guardare fuori dalla finestra, dando però l’impressione di essere intento a studiare, nel caso fosse entrato qualcuno. Non che ci fosse questo pericolo. Norman e Joyce erano andati al concerto e al loro ritorno avrebbero fatto tanto rumore che avrebbe avuto tutto il tempo di sistemarsi. Doveva limitarsi a stare seduto e aspettare. Si era alzato soltanto una volta, quando la lampada aveva reso il vetro troppo scuro e si riusciva a vedere solo la sua immagine riflessa. Si era precipitato giù per le scale per accendere la luce della porta sul retro, era tornato indietro e aveva messo un asciugamano sulla lampada della camera per fare più ombra. Il giardino di dietro si era illuminato, l’erba era piatta e le piante sembravano ombre irregolari che squarciavano il buio della sera; il vento soffiava, stava arrivando un temporale e le case del quartiere di fronte venivano brevemente illuminate da lampi di luci lontane.
Aspettava e meditava sui suoi sogni, soffermandosi su un’immagine, soppesandola, rigirandola, allontanandola per lasciare il posto a un’altra finché, poco prima delle nove, concluse che non poteva farci niente — il cavallo esisteva davvero. E al tempo stesso non esisteva. Era una creazione che veniva da qualcosa che non riusciva a capire, anche se lo sapeva bene, perché quello che aveva fatto allo Squartatore, l’aveva fatto per proteggerlo.
Esisteva. E non esisteva.
Diede un’occhiata agli altri amici, sfumati d’arancio per via dell’asciugamano che ricopriva la lampada, e poi si voltò nuovamente verso la finestra.
Il cavallo non aveva intenzione di permettere che gli facessero del male.
Come e perché, l’avrebbe capito più tardi; in quel momento doveva saperne di più. Reale o irreale, il cavallo era un animale e doveva cercare di capire chi era quella bestia e che tipo di controllo, se mai fosse stato possibile averne, poteva avere su di lui e come poteva inserirlo nel nuovo insieme di Regole che stava escogitando.
Allargò le labbra in qualcosa che doveva essere un sorriso e in quel momento suonò il campanello della porta. Saltò sulla sedia, portandosi una mano al petto. Deglutì, si guardò timidamente intorno e si precipitò da basso, aspettando che il suono si ripetesse prima di decidersi ad aprire la porta.
Era il sergente Verona, con il cappello in mano e un timido sorriso sulla bocca, che chiedeva di poter entrare.
«Certo», rispose Don, facendo un passo indietro e indicando il salotto. «Si accomodi pure.»
Il sergente fece qualche domanda e Don gli rispose che stava bene, anche se si sentiva ancora un po’ impaurito; comunque pensava di tornare a scuola l’indomani. I giornalisti non l’avevano infastidito più che tanto, e il vedersi in televisione era stata un’esperienza strana, ma anche interessante.
«Non sembravo un teppista», disse, prendendo la sedia di suo padre.
«Credi di esserlo? Credi di sembrare un teppista?» Verona stava sul divano e si girava il cappello lentamente tra le mani.
«No, non proprio. Forse assomiglio di più a un divo della televisione.»
«Cerca solo di non farci l’abitudine, ragazzo», suggerì gentilmente l’uomo. «Domani ci sarà un altro assassinio da qualche altra parte e si dimenticheranno tutti presto di te.»
«Bene», rispose lui. Bene, pensò, bene davvero.
«Mio padre e mia madre sono fuori e…»
«Lo so. Volevo vedere te, comunque, se non ti dispiace. Non stavi studiando o qualcosa del genere?»
«Un po’. Posso rimandare.»
«Il bastone», disse Verona.
Don era sorpreso. «Il bastone?»
«Quello con cui hai colpito Falwick.»
Verona smise di giocherellare con il cappello, guardò il suo piede che stava battendo sul tappeto e poi alzò lo sguardo su Don. Prese un fazzoletto dalla tasca della giacca e se lo passò sul viso, ma Don si accorse che i suoi occhi non lo mollavano un attimo, non si staccavano da lui.
«È difficile», confessò il sergente. «Non so come dirtelo, per cui lo dico e basta, okay?»
«Certo.» A Don non importava; non sapeva quello di cui il poliziotto stava parlando.
«Continuo a pensare che forse non sei stato tu», disse velocemente l’uomo, scrutandolo per osservarne le reazioni. «Ho avuto la possibilità di dare un’occhiata ai rapporti e c’è qualcosa che non va, Don. C’è qualcosa che la mia mente si rifiuta di capire e mi sta facendo impazzire. Sarà capitato anche a te, scommetto. C’è qualcosa che ti rode e che non riesci a capire, per cui ci lavori sopra e ci ripensi finché riesci a dare un senso a tutto. Hai capito quello che intendo dire?»
Don aveva capito in parte; conosceva quella sensazione, ma non capiva a che cosa si riferisse il sergente.
«Falwick», proseguì Verona. «Sto pensando che non sia stato tu a colpirlo con quel bastone.»
Don fremette. «Ma invece sì», rispose.
Verona annuì, aspettandosi quella risposta. «Quello a cui sto pensando, capisci, è che tu fossi sul posto, va bene. Cioè, tutto prova che tu eri presente, nessuno lo dubita. Ma non credo che tu fossi solo.»
Don si aggrappò forte ai braccioli. «Ero solo», insistette gentilmente. «Non c’era nessun altro con me.»
«Nessun amico?»
«Nessun amico.»
«Vedi, mi chiedo se per caso voi ragazzi non vi siate riuniti dopo la morte della vostra amica e abbiate deciso di risolvere tutto da soli. Non sarebbe il primo caso.» Verona sorrise amabilmente. «È possibile che tu sia stato mandato nel parco in perlustrazione e quando Falwick è saltato fuori, gli altri sono scesi dagli alberi.»
«No», mormorò Don.
«È possibile che dopo il misfatto, dopo aver picchiato l’uomo a morte e dopo aver visto com’era stato ridotto, siano scappati per lasciare a te la patata bollente.»
«No.»
Verona si asciugò la faccia e rimise il fazzoletto in tasca, prese in mano il cappello e lo fece girare come se fosse una monetina.
«È bello proteggere i propri amici, Don», disse, mentre Don si stava sporgendo in avanti per protestare. «Ma non è bello quello che hai fatto. È un assassinio, Don. Programmare ed eseguire un piano di questo tipo è omicidio di primo grado, a prescindere dall’età che hai. Questa è la legge. Sei un bravo ragazzo, un bravissimo ragazzo, e io non posso fare nient’altro che dirti che ti sto considerando un assassino, tu e i tuoi amici.»
«Lo dirò a mio padre», fu tutto quello che riuscì a rispondere.
«Fa’ pure», disse Verona, alzandosi in piedi e salutando Don che stava ancora seduto. «Forse riapriremo il caso e scopriremo la verità.»
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