Charles Grant - La carezza della paura

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Quale sarà la prossima vittima dello squartatore, il mostro del New Jersey? Il timido Donald Boyd, capace di parlare solo con creature immaginarie di sua invenzione, assalito dal mostro, viene salvato da uno stallone nero che da allora lo difenderà sempre, apparendo dal nulla. Per Donald è la lotta contro una nuova inspiegabile ossessione.

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Don spostò leggermente il libro e abbassò lo sguardo.

«Non si dovrebbe mai perdere tempo, signor Boyd, nemmeno quei pochi minuti che abbiamo a disposizione qui dentro. In alcuni paesi, molto tempo fa, sarebbe stata un’offesa criminale. Anche far perdere tempo agli altri è un’offesa criminale.»

Don non capì, ma era chiaro che l’uomo stava cercando di lanciargli un messaggio.

Lui sa.

non può sapere

E suonò la campanella.

Don uscì con gli altri, sentendo lo sguardo di Hedley che lo seguiva fino alla porta. Avrebbe voluto voltarsi per domandargliene la ragione, ma non ne ebbe il coraggio. Qualsiasi fosse il problema di quell’uomo, non poteva avere niente a che fare con quanto era successo.

Forse era ancora arrabbiato perché pensava che fosse stato Don a rovinargli la casa.

Si precipitò per le scale e si diresse verso la palestra. Stava per aprire la porta quando qualcuno gli afferrò il braccio e lo trascinò via dalla folla verso il pianerottolo.

«Ehi, che cosa…»

Era Chris. Indossava l’uniforme da cheerleader, con la gonnellina corta che metteva in mostra le cosce e il maglione bianco con il nome della scuola che disegnava il suo seno.

«Ehi», fece lei con calma, tenendo d’occhio gli studenti che passavano.

«Ehi», rispose lui e aspettò.

Lei sorrise in modo così meraviglioso che lui dovette sorridere suo malgrado, resistendo all’impulso di sfiorarle una guancia con la mano.

«Hai visto Tar?»

Don scosse la testa.

«Quello stronzo non si è ancora fatto vedere, ma ci pensi?» Si toccò il fermacapelli, sistemandolo con una smorfia. «Scommetto che vuole fare l’entrata trionfale.»

«Non saprei», disse Don. «Non è da lui.»

Lei si strinse nelle spalle; non le importava niente se non era da lui. «È davvero stupido. Se ha di queste intenzioni, Brian gli staccherà la testa.» Emise una risatina appena percettibile e poi gli si avvicinò. «Ti senti bene? Sai, avevo intenzione di telefonarti o anche di venire a trovarti, ma ho pensato … capisci.»

«Sto bene, sì. Grazie per l’interessamento.»

«Be’, ascolta, devo correre in biblioteca prima che il Drago mi rimproveri di essere andata in ritardo a sistemare i suoi libri preziosi, ma ascolta…» Lo guardò attentamente, lo afferrò per il braccio e lo trascinò contro la parete, poi gli disse, dando le spalle alle scale: «Bene, ascolta, hai intenzione di andare alla partita?»

«Certo, credo proprio di sì.»

Riuscì a vedere qualche faccia che passava accanto a loro — nessuno di loro era Brian.

«E dopo che cosa fai?»

Tracey, pensò. «Non lo so. Andrò da Beacher, credo. Non ci avevo ancora pensato. Credo che dipenda se vinciamo o meno.»

Prima che lui potesse fermarla, Chris gli prese la mano e se la portò al seno, lo fece tastare e poi lo lasciò con un sorriso.

«Dopo», sussurrò. «Sia che vinciamo o meno.» E sparì.

Don sentì il viso in fiamme, le mani gli bruciavano, ma non osò sfregarsele per paura di perdere la sensazione che perdurava sui palmi. Si domandò se li avesse visti qualcuno; era successo tutto così alla svelta che non era nemmeno più sicuro della realtà dell’accaduto. Oltrepassò la porta tenendo gli occhi bassi e, dal momento che nessuno disse niente, decise di mettersi a correre in direzione della palestra.

Gli alunni erano seduti vicino alle pareti degli attrezzi. Gli insegnanti, al centro del campo di pallacanestro, con i registri in mano, controllavano la palestra e di tanto in tanto chiamavano qualche nome cui faceva eco in risposta un «Sì» o un «Presente». Don rimase in piedi vicino alle doppie porte, senza sapere dove andare, finché qualcuno lo localizzò e fece il suo nome. Rispose con un cenno della mano e si accucciò per terra, cercando di non fare caso al silenzio che era calato sulla palestra e agli sguardi che lo esaminavano. Si mise a scrutare il pavimento pulito sotto i suoi piedi e non staccò gli occhi da terra, finché nella sua visuale non comparve un paio di scarpe nere.

Alzò gli occhi; era Brian Pratt, con i pantaloni da football e le imbottiture alle spalle. Pratt si accovacciò, lo fissò e scosse il capo. «Non riesco a capire.»

Don allargò le labbra in un sorriso poco convinto. «Non capisci che cosa?»

«Come ci sei riuscito?»

«Lasciami perdere, va bene?»

Pratt scosse nuovamente il capo. «Il mio vecchio aveva ragione, sai», disse. «Sono sempre gli stronzi che ce la fanno e che poi profumano come rose.»

Don era appoggiato con i gomiti sulle ginocchia e teneva le mani incrociate tanto forte da avere le nocche tutte bianche. «Lasciami perdere, eh?»

«Oh, mio Dio. Ehi, hai intenzione di fare la festa anche a me, adesso, Paperino?»

Don alzò gli occhi, senza espressione. «Smettila e basta, va bene?»

Pratt puntò con violenza un dito nello stinco di Don. «Non osare sfiorarmi con un dito, Paperino, hai capito? Non osare nemmeno pensare che io sia della stessa pasta di quel vecchio puzzolente.» Si alzò senza fatica. «E sta’ lontano da Chrissy, altrimenti ti riduco così male che nemmeno tua madre sarà più in grado di riconoscerti.»

Si allontanò in modo arrogante, facendo rumore con i rinforzi delle scarpe sul pavimento di legno, finché uno degli insegnanti gli disse di camminare sui lati. Pratt annuì e fece come gli era stato detto, poi uscì dalla porta più lontana senza voltarsi.

Lo stavano guardando ancora tutti; ne sentiva le occhiate e pregava il Signore che la campanella suonasse alla svelta, allora sarebbe andato al suo armadietto a prendere il giaccone e i libri, poi si sarebbe diretto allo stadio per assistere allo scontro del tardo pomeriggio. Augurò mentalmente a Pratt di rompersi la testa non appena avesse toccato il campo. Si augurò che sulla scuola arrivasse una tromba d’aria capace di trasportarlo via in un posto lontano e sconosciuto dove la gente non sapeva chi fosse.

Quando suonò la campanella, fu il primo a uscire dalla porta, il primo a imboccare le scale. Stava cominciando ad aprire l’armadietto quando si sparse la notizia di Tar Boston.

La banda fece ingresso disordinatamente sul campo, introdotta da una fanfara composta da percussionisti — i Coraggiosi di Ashford sul sentiero di guerra. Andarono tutti a formare una grande A sulla linea delle cinquanta iarde, e qui intonarono l’inno della scuola e due marce. Gli studenti urlavano, fischiavano e applaudivano, poi la banda uscì di scena e prese posto sulle prime quattro file delle gradinate centrali. Gli striscioni della Festa di Ashford erano stati appesi tra i pali e le finestre; un gruppetto di operai aveva sistemato le luci che avrebbero illuminato la partita di quella sera; sul campo era stata allestita una piattaforma con microfoni e sedie, dove si sistemarono il padre di Don e l’allenatore. Erano stati tutti efficienti e perfettamente puntuali.

Don sedeva in cima alla gradinata e non faceva altro che guardare Tracey che suonava il flauto. Gli tornarono in mente dei frammenti della conversazione che avevano avuto la notte precedente e fu certo di non essersi sbagliato sull’interessamento e la preoccupazione della ragazza. Quando suo padre iniziò a parlare, lui aveva ormai deciso di incontrarla dopo la scuola per raccontarle tutta la storia.

Incluso il suo probabile assassinio di Tar.

Doveva essere così.

Anche ridimensionando le chiacchiere che giravano per la scuola, era chiaro che le condizioni del corpo di Tar erano le stesse di quello dello Squartatore. Era altrettanto chiaro che nessuno sarebbe stato tanto stupido da investire il ragazzo continuando poi a infierire sul suo corpo, avanti e indietro, nemmeno per divertimento o per pazzia.

Era stato lo stallone.

Non era mai stato spaventato in vita sua. Non per quello che era successo, ma perché non provava le stesse sensazioni che lo avevano assalito quando lo Squartatore aveva ucciso Amanda. Allora si era arrabbiato; adesso era … contento.

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