E questo lo faceva impazzire.
Era morta una persona. Un essere umano. Qualcuno che conosceva. Ed era contento che Tar fosse morto perché così quello stupido stronzo non gli avrebbe più dato fastidio, non avrebbe più eseguito gli ordini di Brian, non avrebbe più ammazzato uccelli e rovinato biciclette e non avrebbe più potuto far finta di essere il re di un paese senza monarchia. Era morto. Il riconoscimento era stato possibile solo grazie all’esame della dentatura, tanto era sfigurato.
Adesso che so che ci sei, che cosa dobbiamo fare?
Aveva bisogno di parlare e di essere solo; intanto applaudiva in modo assente l’allenatore che stava per essere presentato e che correva in campo tra le file delle cheerleader mentre la banda suonava le marce e qualcuno continuava a sciorinare discorsi.
Applaudiva e non sentiva niente; non vide niente finché si accorse che stavano già per uscire tutti quanti. Parlavano concitatamente, facendo programmi per la serata e per il giorno successivo. Lo ignoravano tutti, perché lui era stato un eroe mercoledì sera, ma il tempo passa, come la banda che marcia inesorabilmente verso il fondo del campo al ritmo dei tamburi stanchi, disordinatamente, guadagnando l’uscita.
Si aprì velocemente un varco tra la folla scendendo le gradinate, superò la porta della recinzione di ferro che dava sulla pista e si diresse verso Tracey. La chiamò ad alta voce. Lei non lo sentì. La chiamò ancora evitando gli spintoni di alcuni membri della squadra, che scoppiarono a ridere al verso stonato di Brian che stava nel mezzo.
Non rompermi le scatole, Brian, disse mentalmente mentre cercava di allontanarsi; non rompermi le scatole, amico, altrimenti ti farò ammazzare.
Allora si fermò e deglutì.
Oh, Gesù. Oh, Cristo!
«Sai, comincio a pensare di essere uno iettatore.»
Se ne andò velocemente, evitando giusto in tempo di scontrarsi con Tracey che stava cercando di sistemare gli spartiti e il flauto e di aprire la custodia, tutto contemporaneamente. La guardò vacuamente e lei gli fece un sorriso amaro continuando ad armeggiare con gli spartiti e lo strumento. Non aveva più il cappello e il vento del tardo pomeriggio le faceva sventolare la frangia sulla fronte, sopra gli occhi. La giacca dell’uniforme era sbottonata sotto il mento e si poteva notare l’incavo della gola, fino allo scollo dei seni.
«Scusa», mormorò.
Lei scosse la testa. «Stai cercando me, veterinario?»
«Sì. Io … hai bisogno…» Si morse il labbro inferiore.
«Vuoi accompagnarmi a casa?»
«Sì, per favore», rispose e lei lo prese sotto braccio. Gli altri correvano verso le uscite e il rumore dei motori per la strada si confondeva con gli schiamazzi, con le risate, con le trombe di alcuni membri della banda che si ostinavano a suonare, e più che una parata sembrava che fosse finita la scuola. Nessuno si fermò a parlare con loro e lui ne fu contento. Era troppo occupato a fingersi l’uomo cieco affidato alla guida di Tracey, mentre cercava disperatamente di cancellare dalla mente quello che aveva pensato di Brian.
Una volta fuori, svoltarono verso la via della scuola, stretti nella morsa degli studenti, così vicini l’uno all’altra che, alla fine, la ragazza si decise a prendergli la mano.
«Allora dimmi», disse, guardandolo di sottecchi. «Tar?»
Lui annuì.
«Dio, è stato orribile, eh? Avresti dovuto vedere la faccia di mio padre quando è tornato a casa ieri sera. Se avesse saputo che lo conoscevo, mi avrebbe fatto restare a casa. I miei nervi. Lui crede che io sia malata, debole, e che mi deprima alla sola vista del sangue, ma tu non ascolti nemmeno una parola di quello che sto dicendo, Donald Boyd.»
«Eh?»
«Visto?»
Le strinse la mano e la trascinò in mezzo alla folla che si stava disperdendo verso il prato antistante la scuola. Mentre si dirigevano verso lo spiazzo, fece diversi sforzi per spiegarle quello che stava succedendo alla sua mente, ma ogni volta doveva fermarsi perché non voleva che lei pensasse che fosse un pazzo e non voleva che gli rispondesse di parlarne con i suoi genitori.
Infine decise di lasciar perdere e accettò il suo silenzio, pensando che fosse una paziente attesa per fargli finire di farneticare.
Il pennone della bandiera era circondato da un piccolo muro in mattoni pieno di terra in cui era stata creata un’aiuola. Non c’erano più fiori, ma il freddo delle ultime due settimane non aveva ancora ucciso gli steli e aveva cristallizzato le foglie. Don andò a sedersi sul muretto e Tracey si sistemò accanto a lui.
Erano soli.
Il sole era già calato dietro l’edificio della scuola e la piazzetta era invasa dalla debole luce del tramonto. Non si vedeva nessun movimento oltre le finestre e la bandiera sopra le loro teste sventolava come se stesse applaudendo cinicamente.
«Non era un tuo amico», gli disse, facendo scorrere un dito sui mattoni e seguendo la linea di calce che li univa. «Non è come per Mandy, intendo dire.»
«Sì, lo so.»
«Voglio dire, non ti poteva sopportare, Don, e probabilmente anche tu lo odiavi a morte. Specialmente dopo ieri notte, per cui non capisco. Non capisco davvero.»
Don guardò in direzione della scuola, i gradini, il prato, la strada. «L’ho ucciso io.»
Lo colpì forte sul braccio. «Non sei spiritoso.»
«Lo so.» Guardò la piazza, le sue gambe, il cielo, gli alberi.
«Io … non sei stato tu, lo sai. Lo so che non sei stato tu. Anche se ha fatto quello che ha fatto, io so che non saresti stato capace di seguirlo per strada e ridurlo a brandelli in quella maniera. Tu…»
Poi si portò una mano alla bocca per imporsi il silenzio e Don capì che in quel momento lei si stava ricordando dello Squartatore e del modo in cui era morto.
Poi sentì dei passi sul cemento e si irrigidì, stringendo le labbra, e quando avvertì la manata sulle spalle chiuse gli occhi.
«Come ti sembro?»
«Come uno stupido manichino da negozio sportivo, cretino», rispose sottovoce Tracey.
Don guardò la mano, la faccia e sorrise a Jeff che aveva ancora indosso l’uniforme e teneva l’elmetto sotto il braccio.
«L’allenatore ci ha detto di tenere questo schifo per il resto della giornata.» Jeff si girò leggermente offrendo la vista del suo profilo, un po’ inconsueto per la mancanza degli occhiali. «Per ispirare noi stessi e gli altri. Così i Ribelli della Ashford Nord tremeranno alla nostra vista e non si dimenticheranno tanto facilmente della dura disfatta che dovranno subire.» Cacciò fuori la lingua. «Lo giuro. State andandovene?»
«Sì», rispose Don. «Giocherai?»
L’espressione di Jeff si fece amara. «Stai scherzando? L’allenatore vuole vincere anche la prossima. Perché dovrebbe farmi giocare quando ha già Brian, Fleet e … gli altri?» Diede un’occhiata a Tracey, si accorse del suo sorriso triste e si appoggiò contro il muricciolo, posando l’elmetto sulle gambe.
«Lo sai, eh?» disse Tracey.
«Sì. L’allenatore ci ha fatto il discorso del soldato. È brutto sentirsi dire ‘Vincete per Tar’.»
Don non disse niente; Tracey rise nervosamente.
Si sentirono altri passi e Fleet passò loro davanti.
Quando fu evidente che non aveva nessuna intenzione di fermarsi, Jeff lo chiamò ad alta voce, senza ottenere risposta. Ma una volta raggiunto il marciapiede, Fleet si fermò e si guardò alle spalle. Era chiaro che stava guardando Don ed era altrettanto chiaro quello a cui stava pensando.
Dio, pensò Don, e si limitò ad annuire quando lo vide respirare profondamente, battendo i piedi per terra, indicando chiaramente di voler tornare a casa prima che si rendesse necessario farsi coprire la faccia da un lenzuolo bianco. Salutò con la mano, diede un’occhiata a Tracey e se ne andò.
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