«D’Amato?» chiamò ad alta voce.
Nessuna risposta.
La porta si chiuse, sibilando.
Non erano di certo affari suoi, ma l’indecisione gli impediva di andarsene. Solo l’anno prima, dopo una turbolenta adunata di benvenuto, era uscito d’istinto dalle porte del piano di sopra e, sul balcone, aveva scoperto due studenti che stavano scopando come ricci sulla gradinata di fronte. Non aveva dato nessun allarme; era semplicemente scivolato nell’oscurità e si era messo a osservarli, eccitato, non tanto dalla scena, quanto dalla sua spontaneità. Era esattamente come nei film che vedeva la sera a casa e che poi sognava tutta la notte.
Era possibile che anche in quel momento, dopo tutta la carica emotiva della giornata, ci fosse qualcuno che aveva avuto la stessa idea.
Controllò l’entrata — non c’era nessuno nel piazzale di fronte, non c’era parcheggiata nemmeno una macchina.
Allora, in punta di piedi e respirando impercettibilmente dalla bocca, si precipitò verso la porta, afferrò la maniglia e la tirò lentamente verso di sé, quel tanto che bastava per farlo entrare.
C’era qualcuno, là dentro.
Riusciva a malapena a vedere attraverso le file di sedili imbottiti e il palcoscenico, illuminato da un’unica lampadina, era completamente vuoto, a parte la presenza di un vecchio divano malandato appoggiato alla parete di fondo.
Ma dopo tutti quegli anni di esperienze scolastiche, sapeva, grazie a una buona dose di sesto senso, sapeva, senza ombra di dubbio, di non essere solo in quella caverna dalle pareti scure.
Si spostò con attenzione, sempre in punta di piedi, verso la navata centrale, fermandosi a ogni fila per controllare entrambi i lati, con le orecchie pronte a captare il minimo sospiro, un fruscio di vestiti, un gemito di piacere.
Dopo essere sceso di dieci file, decise di controllare la galleria sovrastante.
Si voltò e lo vide in piedi sulla porta.
«Cristo», disse e la voce echeggiò nell’auditorio vuoto tornando verso di lui come un boomerang, in un sussurro somigliante a una preghiera.
Due occhi verdi lo fissavano.
Non si soffermò a domandarsi che cosa fosse, da dove arrivasse e che cosa stesse facendo in quel posto. Si voltò e si mise a correre per tutta la lunghezza della navata, bestemmiando contro il proprio peso quando svoltò a destra e inciampò in una seggiola; riprese a correre, ma dovette aggrapparsi alla sedia successiva, per evitare di cadere per terra. In quel momento si voltò e notò che lo stallone stava venendo verso di lui. Un passo alla volta.
Gli occhi verdi lampeggiavano.
Sto per morire, pensò, e non sapeva nemmeno perché.
La paura gli procurò una sensazione di calda umidità lungo le gambe, ma non gli impedì di riprendere a correre. Andò a sbattere contro il palcoscenico. Ingoiò la bile, scosse via il sudore dagli occhi e alzò una gamba per sollevarsi da terra. Non ci riuscì e rotolò sulla schiena a braccia spalancate mentre lo stallone continuava ad avanzare uscendo dall’oscurità.
«Gesù, Giuseppe e Maria.»
Guardò ansiosamente verso i lati della sala, mentre cercava di rimettersi in piedi, augurandosi che D’Amato non avesse chiuso a chiave le porte che conducevano negli altri corridoi. Esaminò attentamente la balconata nel caso ci fosse il custode, poi diede un’occhiata alla creatura che si era fermata nella navata centrale.
Teneva le orecchie all’indietro, gli occhi erano semichiusi e osservavano e non c’era nessuna possibilità che si trattasse di uno scherzo, Io sapeva bene.
Si mise a correre.
Lo stallone strusciò la zampa sul tappeto della navata, provocando fiammate verdi, poi scattò in un galoppo forsennato che impegnava tutta la muscolatura.
Adam rimase senza fiato, momentaneamente paralizzato.
Lo stallone riempiva l’aria di fumo e di fiamme.
Inconsciamente Adam alzò gli occhi verso la lampadina e quando li distolse si ritrovò parzialmente accecato.
Ma non abbastanza per non notare lo stallone che fendeva l’aria, che saltava senza problemi sul palcoscenico, volando ardente, con la bocca aperta sulla dentatura perfetta, come se la testa fosse tutt’uno con la gola.
Adam cominciò a urlare.
La lampadina tremò.
E, nell’oscurità, si videro solo delle fiammate verdi sfumate leggermente di rosso.
Quando Don arrivò a casa, trovò Norman seduto sui gradini della veranda. Le nuvole si stavano raggruppando lentamente e il cortile era quasi completamente buio; i lampioni erano già accesi e gettavano una luce grigiastra sul prato e sul retro della casa. La lampada della veranda splendeva di una pallida luce giallognola e Don si incamminò esitante lungo il vialetto, senza capire perché mai suo padre fosse lì fuori, in quel modo — senza cappotto, senza cravatta e con un bicchiere vuoto in mano.
«Ciao», disse Norman battendo una mano sul gradino di fianco a lui.
«Ciao», rispose Don, sedendosi con i libri appoggiati in grembo. Sperava che quello non fosse un tentativo per trasformare la serata in un lungo discorso-da-padre-a-figlio. In tal caso, forse avrebbe potuto spiattellargli tutto quello che sapeva, riuscendo a capire finalmente quello che suo padre pensava di lui.
«Che cosa ti è sembrata tutta quell’allegra compagnia?»
«Be’, non mi è sembrata male.»
«Ha risollevato gli animi delle truppe, almeno così mi è parso.»
«Anche a me.»
«Scommetto che stasera spaccheranno la faccia a quelli della Nord. Brian aveva l’aria di chi è pronto a uccidere qualsiasi cosa si muova.»
Don l’aveva notato.
«È davvero un peccato per Tar. Quel ragazzo avrebbe potuto diventare un vero campione, un giorno o l’altro. Pratt non ha la benché minima possibilità: è troppo presuntuoso. Boston conosceva i suoi limiti. Bisogna conoscere i propri limiti per diventare famosi nel mondo.»
«Tar è morto», disse Don in tono piatto.
«Già. Che cazzata.»
Si mosse, fece un rutto, poi si passò le mani fra i capelli. «Le cheerleader hanno delle belle gambe, te ne sei mai accorto? Cioè, quando non parli ai tuoi animali, ti è mai capitato di pensare che le cheerleader hanno delle gambe mica male?»
Don non sapeva cosa dire, e allora non disse nulla.
Norman tirò fuori un fazzoletto e si soffiò il naso. «Probabilmente ti starai chiedendo che cosa ci faccio qui fuori, giusto? Probabilmente mi beccherò la polmonite e non potrò andare alla partita: considerando la relativa importanza di questa settimana, non è forse la cosa migliore da fare.»
L’odore del bourbon non era una vera e propria puzza, e i capelli di suo padre non erano poi tanto in disordine sulla fronte.
«Be’, ti dirò perché sono qui, ragazzo mio. Sto aspettando tua madre.»
Don trasalì, ma Norman non lo vide; stava fissando il prato continuando a far girare il bicchiere fra le dita. Finalmente alzò la testa come se stesse prendendo fiato.
«Ti ricordi quella dannatissima domanda che mi hai fatto qualche giorno fa? Te la ricordi, Donald?»
Se la ricordava. Se la ricordava talmente bene che afferrò con i denti l’interno della bocca e strinse forte.
«Bene, immagino che tu abbia diritto a una risposta. Dopo tutto, tu sei il mio unico erede ancora in vita. Molto presto ti lancerai fiducioso in questo mondo e inizierai a vivere la tua dannatissima vita.» Appoggiò una mano sul ginocchio di Don e lo strinse, lo massaggiò per un attimo e ritirò la mano. «Sai una cosa? Tuo nonno me lo diceva sempre, quando si rompeva la schiena in fabbrica e non riceveva altro che pedate nel culo; anche quando diventò caporeparto, continuò a ripetermi che non bisognava fare progetti per il futuro perché la strada che percorriamo è una strada piena di merda. Ce n’è di dura, e possiamo scavalcarla, ma ce n’è anche di molle, e lì sprofondiamo fino al collo. Ma è sempre merda. Diceva che bisogna costruire un futuro ai propri figli, come lui stava facendo con me. Diceva che era l’unico modo per farsi ricordare dalla gente.
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