Ognuna era chiusa con sbarre di ferro e dei lucchetti arrugginiti.
Cella dopo cella… forse, in tutto, una dozzina. Una prigione.
« Gott im Himmel », mormorò Kohl.
«È naturale», mormorai. «Quando la neve chiude Borgo Pass, i visitatori non possono venire, ma lui deve comunque nutrirsi…»
Anche questo doveva essere il mio compito: riempire la sua prigione in autunno, in modo che potesse mangiare durante l’inverno?
Distogliemmo i nostri volti da quell’orrore, e in qualche modo riuscimmo ad andare avanti. Infine le celle finirono e lo stesso tunnel terminò in un improvviso muro di terra pieno di radici morenti di alberi e nidi di piccoli animali. Ai piedi di quel muro c’era una grande botola di legno bordata di spesse strisce di metallo arrugginito e ricoperta di chiodi di ferro.
Corsi verso di essa, posai la lampada a terra e afferrai con entrambe le mani il grosso anello di metallo. Kohl lasciò cadere le nostre armi, mi raggiunse, e tirammo insieme.
Ma la botola era bloccata con sicurezza dall’interno e l’esterno era tenuto chiuso con una grossa catena attaccata ad un lungo chiodo conficcato nel terreno duro. Nessuna creatura poteva passare attraverso quella porta con dei mezzi che non fossero soprannaturali.
Presi il martello e colpii forte il legno, ma era pietrificato, come roccia dura. Non riuscii a far altro che intaccarlo. Cercai di rompere la catena, con lo stesso risultato, e poi cercai di infilare il palo tra la terra e il legno come una leva; anche questo tentativo fallì. Quando fui esausto, Kohl fece del suo meglio per rompere e poi sollevare la botola ma, dopo una frustrante mezz’ora, ci arrendemmo e ritornammo indietro per la lunga e tortuosa strada da cui eravamo venuti.
«Si alzerà al tramonto», dissi al mio compagno. «Dovete partire molto prima, o la vostra vita è perduta».
«Allora voi e la vostra famiglia dovete accompagnarmi», insistette Kohl. «Per vostra moglie è pericoloso viaggiare, ma sembra che lasciarla qui sia un pericolo molto più grande».
Acconsentii, semplicemente per evitare l’argomento, sebbene intendessi restare e impedire a V. il più a lungo possibile di seguirli. Era già pomeriggio inoltrato; spiegai che V. si sarebbe alzato al calar del sole, tanto che avremmo potuto solo avere un vantaggio di un paio di ore. Si imponeva la rapidità.
«Poi c’è la questione della cameriera, Dunya», dissi. «Vlad sa tutto ciò che lei sa, e se lei è sveglia e libera quando partiremo, lui saprà attraverso lei quando e in che direzione saremo diretti. Se c’è qualche modo per impedirle di farlo…».
«Lasciate fare a me», rispose Kohl con fermezza.
Ritornammo alla prigione di mia moglie per trovarla con il bambino ancora in braccio e dei fogli in grembo. Dunya le era vicino per assisterla. Mia moglie sollevò gli occhi e i nostri sguardi si incrociarono: vidi che tratteneva le lacrime. Mentre mi avvicinavo e mi fermavo a fianco del letto, al lato opposto a quello di Dunya, vidi che i fogli erano coperti della mia calligrafia: Mary aveva letto ciò che avevo scritto nel diario riguardo alle rivelazioni di Zsuzsanna.
Abbassai gli occhi di fronte a quello sguardo ferito e consapevole, disperato al pensare che avevo ancora causato a mia moglie un tale dolore. Nessuno di noi disse una parola a causa di Dunya; non dovevamo. Tutto fu raccontato dagli occhi innamorati e pieni d’orrore di Mary.
Kohl mi si avvicinò e disse gaiamente a Dunya:
«Signorina, sembrate molto stanca e pallida. Andate a dormire. Sorveglierò io la vostra padrona».
La ragazza abbassò gli occhi con timidezza, imbarazzata per essere stata notata, ma la sua voce era risoluta quando rispose:
«No, signore. Voi siete un ospite in questa casa. È mio dovere restare sveglia ed aiutare la mia padrona e il bambino».
Kohl ascoltò attentamente, poi annuì con indulgenza.
«Bene, allora, permettetemi di darvi un tonico che vi sostenga». Per un momento lei si illuminò e sembrò sull’orlo di accettare contenta, ma poi i suoi occhi divennero vuoti nello stesso orribile modo di quando aveva visto V. e la sua espressione si mutò in una di sospetto.
«Grazie, signore, ma sono abbastanza forte».
Lui alzò le spalle e disse con simpatia:
«Come desiderate, ma preparerò un tonico per la vostra padrona», e appoggiò la sua borsa sulla credenza vicina al muro ai piedi del letto.
Ci volgeva la schiena, e né io né gli altri potevamo vedere cosa stesse facendo.
Poi si voltò verso di noi, sorridendo, e si avvicinò rapidamente al lato del letto dove sedeva Dunya.
Lei non sospettò nulla, ma studiava con preoccupazione e perplessità la sua padrona in lacrime. Kohl si chinò sul letto come per somministrare qualche farmaco a Mary ma, all’ultimo istante, si voltò e applicò un fazzoletto sul naso e sulla bocca di Dunya.
Immediatamente lei si alzò in piedi ed emise un grido soffocato; sopra il fazzoletto, i suoi occhi si spalancarono per l’indignata sorpresa ma, nel giro di pochi secondi, si chiusero, e allora si abbandonò, incosciente, nelle braccia forti e solide di Kohl.
«Non fatele del male!», gridò Mary. «Lei non ha colpa di ciò che è successo».
Turbata, mi afferrò le mani e, finalmente, diede sfogo alle lacrime. Anch’io mi misi a piangere e piangemmo per un po’, mentre Kohl adagiava delicatamente la ragazza sul pavimento.
Ritornò rapidamente al fianco di Mary e la consolò:
«Non le è successo niente; dormirà soltanto qualche ora».
«Mary», dissi, «tu e il bambino dovete andare via immediatamente con il dottore. È l’unica speranza che ho di salvarvi».
«Tu non puoi rimanere!».
Atterrita, si sforzò di mettersi seduta; il bambino che dormiva nelle sue braccia si mosse. Kohl la rimise con gentilezza ma con fermezza contro i cuscini.
«Se tu hai letto», indicai con il capo i fogli raccolti sul suo grembo, «sai che lui non farà niente per farmi del male. Io posso distrarlo finché voi non sarete in salvo. Nel momento giusto, vi raggiungerò».
Nonostante la sua debolezza, parlò con ardore.
«Sapere che la tua vita non è più in pericolo mi è di poco conforto; lui non si fermerà davanti a niente per corromperti, e molto più che la tua vita sarà perduto».
Feci scorrere una mano sulla sua fronte calda e le accarezzai i capelli bagnati.
«Mary… tu non sei più al sicuro con me».
«Forse no», disse. «Forse mi ucciderà. Non mi importa più quello che sarà di me, purché rimanga con te, ma non perderò mio marito e mio figlio.
Vlad sa di non avere potere su di te se non attraverso me e il bambino. Tu non sarai in grado di trattenerlo qui: ci seguirà immediatamente, poiché è soltanto finché saremo vivi e sotto il suo controllo che lui potrà ricattarti.
Non posso permettergli di distruggerti a causa nostra. Devi accettare questo; devi essere coraggioso. Tu sei mio marito e io non ti abbandonerò. Rimarrò con te finché non sarai libero dalla maledizione».
Voltai il viso, riluttante a lasciarle vedere il dolore che vi si leggeva, sapendo che quello che diceva era vero. Se avessi mandato via lei e il bambino insieme, V. li avrebbe seguiti… con, temevo, terribili conseguenze. Non era importante che io li accompagnassi.
Ma gli stessi orrori sarebbero accaduti se fossero rimasti.
Non sembrava esserci soluzione per la salvezza della nostra famiglia. Anche così, in quel momento, arrivò la rivelazione: vidi con magica chiarezza quello che doveva essere fatto, sebbene non riuscissi ad esprimerlo, sapendo il dolore indicibile che avrebbe inflitto alla persona più vicina al mio cuore.
Ma lei era forte; mi voltai verso di lei mentre diceva con amara dolcezza:
«Ma noi vogliamo entrambi che nostro figlio sia vivo. Credo che Dio abbia mandato quest’uomo per liberare nostro figlio dal male. Io ho fiducia in lui».
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