«Primo: devo sapere perché voi siete qui. Che cosa conduce un uomo nella casa di un assassino, anche se è un suo parente?»
«Siamo suoi prigionieri», dissi, senza cercare di nascondere il mio tormento. «Come lo sarete voi, se non partite. Lui ha minacciato mia moglie e il bambino, sperando di corrompermi per assisterlo nel compiere il male».
Mi portai una mano tremante agli occhi per nascondere la vista del forestiero, sperando di poter cancellare il ricordo di ciò che avevo appena rivelato.
Il forestiero sospirò profondamente e disse:
«Mio padre visitò questo stesso castello venticinque anni fa».
Abbassai le mani e incontrai il suo sguardo.
«E scomparve», mormorai.
Il dolore guizzò nei suoi occhi prima che guardasse altrove.
«Senza una traccia», disse cupamente. «Io, naturalmente, non ero che un ragazzo a quel tempo. L’ultima lettera che ricevemmo da lui era stata impostata a Bistritz, il giorno prima che andasse in visita dal vostro prozio. Per anni, la mia famiglia ha tentato di ricostruire ciò che gli accadde… ma fummo sempre ostacolati. Nessuno ci volle aiutare, né la polizia di Bistritz, né il governo locale. Spendemmo un enorme somma di denaro per avvocati, persino per un investigatore privato, cercando di rintracciarlo. Gli avvocati fallirono e l’investigatore stesso sparì e non se ne seppe più nulla.
Infine, mia madre si arrese e abbandonò la speranza, poiché era del tutto chiaro che era stato vittima di un delitto e che una sorta di cospirazione circondava la sua scomparsa. Anch’io abbandonai le ricerche, finché dei sogni in cui mio padre supplicava aiuto mi hanno talmente disturbato che non potei ignorarli più a lungo. Ho promesso di vendicarlo e così, preso dalla disperazione, ho viaggiato fin qui e ho saputo molto da brava gente del luogo. Ho sentito molte, molte storie, alcune completamente fantastiche, ma tutte indicano che vostro zio è un assassino recidivo. Non ho dubbi che il mio povero padre sia stato una delle sue vittime».
«Tutte le storie sono vere», dissi tetramente. «Anche le più fantastiche…».
Kohl si lasciò andare a una risata di spavento.
«Certamente no! Dicono…». Abbassò la voce. «Dicono che sia un Vampiro, un bevitore di sangue umano. Voi sembrate un uomo istruito, intelligente. Di sicuro non…».
«Il collo», gli dissi. «Esaminate il collo della ragazza».
«State scherzando», disse, con meno convinzione e fece un sorriso che svanì lentamente mentre mi osservava in volto. «È impossibile».
«Sì, impossibile… e vero».
Non dissi nient’altro; rimasi in silenzio finché, finalmente, Kohl si voltò e bussò alla porta, attendendo finché Dunya disse che poteva entrare.
Lo guardai dalla porta aperta mentre visitava ancora mia moglie e mio figlio, parlando allegramente a entrambi in tedesco; il suo sguardo cadde sui fogli scritti con la mia calligrafia, che si trovavano sul tavolino accanto a mia moglie distesa. Forse vi vide qualcosa che lo disturbò, poiché la sua espressione si oscurò momentaneamente. Poi sorrise di nuovo e si voltò verso Dunya, dicendo:
«Signorina, sembrate molto provata! Siete sicura di non essere malata?».
Lei arrossì e balbettò:
«No, sono semplicemente stanca».
Ma lui con un gesto ignorò la sua risposta e insistette affinché aprisse la bocca, in modo che potesse osservarle la gola.
«Poiché c’è stata un’epidemia di difterite nella regione», spiegò.
Con destrezza, le toccò le ghiandole nel collo, riuscendo ad abbassare sufficientemente il colletto per vedere i segni incriminati.
«Bene, bene», mormorò, con un’espressione composta, ma la schiena gli si irrigidì leggermente per la reazione.
Io entrai e dissi, a beneficio di Dunya:
«Herr Kohl, permettetemi di mostrarvi le stanze degli ospiti e aiutarvi con il bagaglio. Senza dubbio, desiderate riposarvi».
«Ah!». Si voltò, gli occhi chiari che luccicavano ancora per lo stupore e mi seguì nel corridoio. Quando fummo a sufficiente distanza per non essere uditi, disse: «Non è una prova. Quei segni potrebbero essere stati fatti da un animale…».
Trattenni la lingua e lo condussi nella grande camera esterna, oltre il trono. Osservò tutto con occhi spalancati, scuotendo la testa per l’incredulità.
«L’ho visto prima, quando vi ho seguito da vostra moglie, sebbene non riesca a credere ai miei occhi», mormorò. «Che sorta di mostro…?». Indicò il teatro di morte scoperto. «E senza dubbio lì dove…».
Si interruppe, incapace di continuare. Gli misi la mano sulle spalle, comprendendo fin troppo bene il suo senso di orrore e di sgomento.
Dopo un momento di silenzio, dissi:
«Venite».
Lo condussi nel rifugio più interno dove si trovavano le bare, con i coperchi ancora aperti che mostravano le impronte dei loro corpi sulla seta rossa. Accanto ad essi sul pavimento giacevano il palo, il martello e il coltello che io avevo lasciato cadere.
Kohl guardò la scena e l’altare nero con un’espressione di terrorizzato stupore, ma non parlò.
«Dorme di giorno, proprio come dice la leggenda», gli dissi. «Normalmente è qui, ma si è nascosto… da qualche parte nei possedimenti del castello, ne sono sicuro. Io intendo distruggerlo. La vostra chiamata ha interrotto la mia ricerca. Mi aiuterete?».
Lo sguardo di Kohl, di insolita intensità, incontrò il mio.
«Sì».
Gli indirizzai un sorriso senza gioia.
«Non m’importa che crediate che il mio prozio sia un Vampiro o un mostro interamente umano, ma devo insistere per la vostra stessa salvezza che prendiate questo e lo indossiate. La vostra pistola non vi darà protezione in questa casa».
Gli porsi il crocifisso di Ion, che lui si mise intorno al collo senza esitazione.
«E voi?», chiese.
«Io valgo oro per lui», dissi. «Non mi farà del male».
Al sentire ciò, Kohl mi guardò con sospetto, ma io non spiegai. Ci armammo di palo, martello, coltello, e di una lampada, poi cominciammo la caccia.
Per le ore successive, attraversammo quaranta o cinquanta stanze, guardando accuratamente, lentamente, sotto i letti, nelle credenze, nelle dispense, nei ripostigli, nelle stalle, nella cantina, in ogni luogo che potesse offrire a V. e Zsuzsa un posto per riposare.
Fuori, le nuvole erano nere e tuonava; infine, arrivò il temporale, con un forte vento che spingeva furiosamente l’acqua contro le finestre, uno sfondo appropriato per la nostra caccia. Dopo una ricerca completa dei piani superiori, ci dirigemmo alla cantina e scoprimmo, sotto uno strato di polvere così spesso che quasi non la trovammo, una porta che conduceva ad una scala. Queste scale, a loro volta, portavano ad un’intera serie di catacombe sotterranee, scavate nella terra umida e coperte di ragnatele.
Quasi mi aspettavo di trovare le ossa di martiri cristiani, ma le prime poche camere erano vuote, tranne che per i topi che correvano via al nostro avvicinarsi e per una fiorente popolazione di scarafaggi: i margini del raggio di luce della mia lampada sembravano vivi per le piccole e scure creature striscianti.
Sentivo, però, che gli oggetti della nostra ricerca erano vicini, e lo stesso, penso, sentì Kohl, perché la sua espressione divenne sempre più tesa. Tenendo alta la lampada, passai di camera in camera. Il terreno inclinava leggermente verso il basso, ed ebbi la sensazione di scendere sempre più in profondità nella terra, con l’aria che diveniva più umida ad ogni passo.
Poi entrammo in un lungo e stretto corridoio che si estendeva in un’oscurità senza fine. All’improvviso, Kohl mi toccò la spalla e disse:
«Guardate!».
Seguii la direzione del suo sguardo e vidi, alla sinistra del raggio tremolante della lampada, delle celle, ognuna della grandezza di un grande ripostiglio, scavate nella terra. All’interno vi si trovavano coperte di lana putride, tazze di stagno, scodelle, catene e qualche sgabello di legno…
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