Quel mattino ero già passato attraverso quella stanza per due volte, ogni volta in fretta, senza guardare. Questa volta entrai, e osservai con attenzione ciò che mi attorniava.
L’aria sembrava soffocante, senza vita, pesante per la morte e i dolori che vi si consumavano. Alla mia sinistra, c’era il grande trono vuoto; davanti a me, la tenda di velluto era ancora aperta rivelando la “strappata” e altri strumenti di tortura. La mannaia che Laszlo mi aveva scagliato era stata rimessa con cura al suo posto con gli altri strumenti del macellaio.
Camminai dietro il tavolo su cui era stato Herr Mueller, e presi il coltello con la lama più grande e più spessa, poi scelsi un paletto corto e appuntito e il pesante martello. Così armato, mi avviai verso il rifugio più interno. Anche quella porta era leggermente accostata. La spinsi con la punta del mio stivale e la udii aprirsi con un lamento simile a quello di un moribondo.
Ero sorpreso che V. avesse così tanta fiducia in me da non sprangare la porta; pensai a Zsuzsa che parlava indignata della sua arroganza. Lui le aveva mostrato la sua durezza di cuore, ma il suo egotismo non gli permetteva di credere che lei non lo adorasse più. Era anche così scioccamente sicuro del mio amore, tanto da non temere il tradimento?
Entrai. Di nuovo, un odore di polvere e di lieve putrefazione. Mi diressi subito alla più grande delle due bare, poggiai silenziosamente il coltello di Laszlo sul pavimento, e con il paletto e il martello in una mano, aprii il coperchio della bara con l’altra.
Si alzò con facilità, senza resistenza e, nell’istante in cui si sollevò, il mio cuore cessò momentaneamente di battere in seguito alla più pura e fredda ondata di paura che abbia mai conosciuto. Eppure mi dava una strana euforia, come essere tra i frangenti di un mare artico, e seppi in quell’istante che non mi sarei sottratto al mio compito.
Sollevai del tutto il coperchio e guardai nell’oscurità il rivestimento scarlatto, consumato, che indicava i chiari segni del peso della testa e del tronco sulla stoffa in seguito agli innumerevoli anni.
Vuota!
Una voce lontana, straniera e con uno strano accento, ruppe la quiete.
«C’è qualcuno?».
Il suono mi spaventò talmente che il martello e il palo mi sfuggirono di mano e caddero rumorosamente contro la pietra. Il cuore mi batteva furiosamente. Zsuzsanna si era, forse, pentita della sua confessione e, capendo che lei e V. avrebbero potuto presto essere distrutti, era andata subito ad avvertirlo?
Corsi nella camera esterna, notando a malapena il teatro di morte scoperto.
«C’è qualcuno?».
Il grido divenne più forte, più insistente; con un sussulto, compresi che riecheggiava sulle mura interne del piano sottostante. Un estraneo era entrato nel castello.
Rivolsi uno sguardo angosciato all’entrata che conduceva alla signorile prigione di mia moglie, da cui le sue grida uscivano senza sosta. Non desideravo lasciarla nella poco sicura compagnia di Dunya, specialmente adesso che non ero certo di dove V. si trovasse, ma non potevo ignorare le grida del forestiero… poiché sapevo, con infelice certezza, chi era che chiamava.
Uscii correndo dalla camera e scesi in un lampo la scala a chiocciola. Vicino all’entrata principale, mi imbattei in uno straniero che aveva appena cominciato a salire le scale. Ci fermammo a parecchi metri di distanza, io sopra e lui sotto, per studiarci vicendevolmente.
Era un uomo alto, di costituzione robusta e con gli occhiali, con capelli chiari e radi, una carnagione florida che si mostrava sotto la barbetta a punta e i baffi, e occhi chiari. Dal suo vestito lo giudicai un uomo istruito e di classe superiore e, dal suo comportamento, lo ritenni riflessivo e equilibrato.
Al vedermi indietreggiò, perdendo quasi l’equilibrio sulla scala, poi si riprese con un sorriso nervoso e disse, in un tedesco con uno strano accento:
«Perdonatemi per essere arrivato senza essere annunciato, ma ho la mia carrozza e desideravo arrivare prima possibile».
Per un momento, la mia prontezza di spirito mi abbandonò; non parlai. La mia espressione dovette allarmarlo poiché chiese, esitando:
«Questo è il castello del Principe Vlad Dracula, vero?»
«Sì», risposi, quando, infine, le facoltà mentali mi ritornarono. «Sì, lo è, ma voi dovete andar via al più presto, signore… immediatamente!».
Le sue pallide sopracciglia si incontrarono aggrottandosi sopra gli occhiali mentre mi guardava; con mite indignazione, si raddrizzò.
«Ma io sono Erwin Kohl, sono un ospite invitato! Di sicuro deve aver parlato a qualcuno del mio arrivo…».
«Infatti, signore», risposi più cordialmente, dato che avevo ripreso la mia padronanza. «E siamo spiacenti che nessuno vi abbia potuto incontrare a Bistritz, per la stessa ragione per cui dovete partire adesso: c’è una malattia nel castello. Una terribile malattia».
Sempre con le sopracciglia aggrottate, Kohl socchiuse gli occhi e piegò la testa da un lato mentre osservava attentamente il mio viso; seppi subito dalla gentile intelligenza dei suoi occhi e della sua espressione che era un uomo di acuta percezione.
Seppi anche che aveva la sensazione che stessi mentendo.
Sollevò un sopracciglio e, oltre l’incredulità, vidi un barlume di preoccupazione.
«Chi è malato? Forse posso aiutare…».
«Tutti», dissi, scendendo di uno scalino verso di lui, «tranne me».
«Potrebbe spiegare l’assenza di domestici», mormorò tra sé, poi mi disse a voce alta: «E il Principe… anche lui è malato?»
«Il Principe è il più malato di tutti». Avanzai di un altro passo, e il mio tono divenne stridulo. «Signore, sono morti in molti! Per la vostra stessa salvezza, vi devo chiedere di partire immediatamente!».
Pronunciai quelle parole con autentico panico e frustrazione, nonché con profonda convinzione, e credo che lui se ne fosse accorto. Avrebbe dovuto reagire con la paura e partire con urgenza ma, con mio sgomento, si raddrizzò e rimase dov’era, poi serrò la mascella, alzò leggermente il mento verso l’alto e in quei piccoli e ostinati gesti, vidi la mia sconfitta.
Era deciso a restare… per una ragione che non riuscii a comprendere.
«Non fa nulla. Permettetemi di vedere il Principe».
La sua voce era velluto sopra la pietra: morbida in superficie, dura come la silice al di sotto.
«No. Dovete partire ora » .
Con rapidità scesi i gradini che ci separavano e lo presi per le spalle, pensando di farlo girare e di condurlo giù lungo le scale e fuori del castello. Ma era un uomo più grosso di me e fece resistenza. Ci azzuffammo goffamente, senza convinzione — nessuno dei due era, chiaramente, un uomo violento — con il risultato che si trovò due gradini sopra di me, con una pistola brandita con mano ferma.
«Portatemi dal Principe», disse ancora, e mirò con attenzione l’arma alla mia fronte.
Lo guardai negli occhi. Erano di un blu chiaro, razionali, gli occhi di un uomo comprensivo. Non lo giudicai capace di crudeltà, ma sembrava aver raggiunto un livello di disperazione che eguagliava il mio.
Mi sedetti sul gradino, misi i gomiti sulle ginocchia e le mani sugli occhi e risi finché non sgorgarono le lacrime, pensando: Ora mi sparerà, il Patto sarà rotto, e la mia famiglia sarà salva.
Il presunto signor Kohl non fece fuoco, ma rimase tranquillo di fronte al mio riso isterico, forse sorpreso dalla mia reazione come io lo ero stato dalla sua.
Lo guardai e chiesi con lieve irritazione:
«Bene, uccidetemi allora e facciamola finita».
Poi feci silenzio, pensando che affrettare la mia morte avrebbe potuto essere considerato un suicidio e soddisfare in tal modo il Patto di Vlad.
Con un’espressione interrogativa, lo straniero chiese:
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