«Ti ci porterò», dissi, «se tu risponderai a una sola domanda. Chi l’ha fatto rivivere?».
I suoi occhi si strinsero.
«Allora lo hai incontrato, suppongo… Bah! È stato uno spreco, uno spreco di energia. Tu mentivi : dicevi che voleva distruggere Vlad. Quale beneficio mi ha apportato?»
«Al prezzo di Dunya», osservai amaramente. «Hai ucciso lei per far rivivere lui…».
Lei non lo negò, ma mi scosse malamente, dicendo:
«Fai strada! Portamici adesso… e sappi che più tardi pagherai per questa insolenza. Quando diventerò potente come l’Oscuro Signore, stanotte, ti metterò in gabbia nella Vergine per tutta l’eternità! E tu, mia cara, sarai la prima ad essere testimone della mia trasformazione e della mia vendetta; hai guadagnato questo dal tuo tradimento».
Non sapevo cos’altro fare, così la condussi all’entrata principale del castello, poiché era soltanto risalendo che potevamo poi scendere fin dove intendeva andare. E, mentre passavamo di lì, lei si fermò mentre la grande porta principale si spalancava, e sorrise alla vista di Bram, affannato, con gli occhi sconvolti, sulla soglia.
«Dottor Van Helsing», disse con ironica dolcezza. «Come siete gentile a farci visita! Temo di essere, al momento, occupata con uno dei vostri parenti, ma non temete! Ritornerò da voi… sia che fuggiate con la nave, con il treno o con il carro; non importa. Vi troverò e farò fare a voi e ai vostri amici una spiacevole fine».
Fece quindi un gesto con la mano verso di lui, come una gelida signora potrebbe scacciare un servo; subito lui cadde all’indietro, in silenzio.
Bram , gli dissi in silenzio, prendi gli altri e fuggi. Dovete trovare Arminius…
Lo lasciai lì e la condussi nel profondo delle viscere del castello, nell’umida cantina scavata nella terra, ora completamente piena delle ossa dei molti che vi erano morti tra i tormenti.
«La donna», disse Elisabeth, con la voce bassa per l’ansia. «Dove sarebbe la donna con il cuore d’oro?».
Onestamente non lo sapevo.
«Questi sono, per la maggior parte, uomini», dissi, indicando verso il basso la terra ricoperta di ossa, «ma alcune sono donne. Non so immaginare dove…».
Le mie parole furono cancellate da un vento potente, che alzò la terra compressa e cominciò a farla roteare, finché la stanza fu piena di sabbia pungente e turbinante. Mi coprii il viso finché essa si posò, poi abbassai le mani e vidi che i miei piedi erano fermi sopra un’ineguale piattaforma di scheletri ammassati, tutti così vecchi che le ossa si erano staccate ed erano sparse disordinatamente. Migliaia e migliaia di scheletri, così tanti da farmi comprendere che essi e non la terra costituivano le fondamenta del castello.
Solo un piccolo punto emergeva tra quel macabro intrico di avorio ingiallito: l’angolo dov’era il catafalco di Arkady, dal quale la polvere e la bara di Dunya adesso erano stati rimossi. Il catafalco di pietra restava ma, sotto di esso — da secoli, circondato da gambe, braccia e mani d’ossa e da dita senza carne che afferravano la sua lucida superficie — vi era una bara di acciaio lucente.
Sempre tenendomi per il braccio, Elisabeth mi trascinò verso di essa… poi lentamente allentò la presa con un sorriso astuto, sapendo che non sarei potuta scappare da lei in quel momento. Stringendo con una mano il manoscritto, usò l’altra per spingere di lato il solido catafalco di pietra, facilmente, come una donna mortale potrebbe spingere una sedia.
La pietra cadde rivoltandosi su altre ossa, schiacciandole quando cadde su un lato. Entrambe ci chinammo sulla bara per leggere l’iscrizione che vi si trovava, in rumeno arcaico:
ANA, AMATA CONSORTE DI VLAD III
Con un sibilo di trionfo, Elisabeth tolse il coperchio e lo gettò di lato; esso cadde rumorosamente sulla pietra, rompendola.
All’interno si trovava uno scheletro piccolo e fragile, con la mascella disintegrata, tanto che il cranio era caduto in avanti sulle ossa del collo e giaceva perpendicolarmente alle costole. Sotto la testa c’era una lunga striscia di capelli neri in decomposizione; sotto le braccia incrociate un pezzo di seta ingiallita a brandelli.
E a sinistra dello sterno vi era un medaglione di oro martellato, leggermente più grande di quanto doveva essere stato il vero cuore della signora. Nel centro c’era una piccola serratura e, sopra la serratura, scritte in latino, c’erano le parole:
ETERNA BONTÀ
Subito Elisabeth lo agguantò e, con la mano che tremava, trasse la piccola chiave d’oro dal suo seno e la fece scivolare nella serratura.
Vi si adattò senza difficoltà, con uno scatto. Mentre lo apriva lentamente, mi guardò con un oscuro, cupo sorriso.
Il diario di Abraham Van Helsing
5 novembre, continua. Mentre entravo barcollando e ansimando nel castello, ancora sconvolto per la sensazione della vicinanza dell’Oscuro, incontrai per caso Zsuzsanna, crudelmente intrappolata nella potente stretta della contessa di Bathory. Quella vista mi riempì di una disperazione ancora più grande. Elisabeth era in possesso della prima chiave! Ma non aveva ancora scoperto la seconda e risolto il mistero, poiché non appariva più potente di quanto fosse sembrata fuori, sulla neve. Ma come potevo fermarla?
L’espressione di Zsuzsanna era calma, senza paura; non disse una parola mentre Elisabeth si prendeva gioco di me, mi minacciava, e mi faceva cadere a terra come aveva fatto con gli altri, con un semplice gesto. Ma, prima che la contessa trascinasse via la sua prigioniera, promettendo di ritornare da me più tardi, Zsuzsanna catturò il mio sguardo.
E le sue silenziose parole mi riempirono la testa: Bram, prendi gli altri e fuggi. Trova Arminius…
Andava incontro, lo sapevamo tutti e due, al più spiacevole dei destini, ma sembrava estremamente rassegnata al suo fato, come se lo meritasse, e non mostrò altro che preoccupazione per me. E, in quell’istante, le perdonai lutto.
Arminius! Dannato Arminius! Una volta che entrambe furono scomparse, mi alzai in ginocchio e singhiozzai, scuotendo il pugno verso l’aria vuota, pregando perché il mio protettore apparisse e mi aiutasse.
Da qualche punto sotto di me, nelle viscere del castello, udii il grido soffocato di Zsuzsanna, e mi alzai pieno d’ira. Non sarei stato a guardare. Avevo visto la direzione in cui erano andate, e la seguii finché trovai una botola che chiaramente conduceva di sotto. Ma era bloccata. Non riuscii ad aprirla e non riuscii a entrare: non potei fare altro che lamentarmi in preda a un’impotente frustrazione. Tra pochi minuti, forse anche prima, Elisabeth sarebbe ancora emersa, e nessun talismano in tutto il mondo l’avrebbe fermata.
Così mi sedetti sul pavimento, tenendomi la testa tra le mani e, agnostico quale sono, pregai Dio.
Nella mia testa, una voce parlò ancora: era la voce benedetta di Arminius.
Abraham, figlio mio. Siamo vicini alla sconfitta. Soltanto una cosa può fermarla: stipula tu un Patto con l’Oscuro Signore, e compra la nostra vittoria.
«No!». Mi premetti le mani contro il cranio, per fame uscire quelle cattive parole. «No!».
Di nuovo pregai Dio, ma, nuovamente, Dio rimase in silenzio. Arminius parlò ancora. Dio non ti può aiutare adesso. Solo l’Oscuro Signore lo può.
Il pavimento rimbombò come per un terremoto e da sotto provenne l’ululato di una forte tempesta. Cercai di alzarmi in piedi, di riprendere a camminare, ma persi l’equilibrio e caddi su un ginocchio. Con l’immaginazione vidi la grande oscurità incombente del sogno e mi vidi divorato da essa…
E poi l’immobilità. Un’immobilità così profonda che fui pieno di un terrore differente, in attesa del suono della voce di Elisabeth accanto a me.
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