Ursula Le Guin - La spiaggia più lontana

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La pace che sembrava tornata nel mondo fatato di Earthsea dopo la riconquista da parte di Ged della metà mancante dell’anello magico di Erreth-Akbe nei labirinti oscuri delle tombe di Atuan, è di nuovo in pericolo: Arren, il giovane principe di Enlad, la più antica casata di Earthsea, viene personalmente all’isola di Roke per avvertire l’Arcimago Ged, ormai maturo e famoso in tutto il mondo, che la magia va scomparendo in tutte le terre del Nord. Nessuno sa il perché, ma gli antichi incantesimi non funzionano più ed i maghi vanno perdendo la conoscenza della “lingua antica” che era alla base della loro forza.
Così, per scoprire da dove provenga questa minaccia che allarga con tanta rapidità la sua sfera d’influenza, Ged ed Arren, l’uomo saggio ed il fanciullo inesperto, partono per un viaggio che sarà una vera e propria odissea: un lungo vagabondare attraverso le isolette e le genti di Earthsea che li porterà ad affrontare pericoli di tutti i generi (briganti, mercanti di schiavi, traversate avventurose in mari burrascosi), fino a giungere all’ultima spiaggia, a Selidor, l’isola all’estremità del mondo, dove risiedono i draghi, ed ancora più oltre, in un luogo desolato da cui nessuno fa mai ritorno.
La spiaggia più lontana conclude il ciclo di Ged, un ciclo di rara bellezza letteraria e di grande coerenza interna, che accoppia ad una poetica narrazione di eroiche gesta, un’allegorica riflessione sull’equilibrio cosmico e sull’essenza della vita.

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Si diresse verso la propria camera, e tutti si ritrassero per lasciarlo passare.

Venne mandato a chiamare il Maestro Guaritore. Questo ordinò di mettere Thorion a letto e di coprirlo bene; ma non preparò filtri con erbe risanatrici, non salmodiò nessuno dei canti che aiutano il corpo malato e la mente turbata. C’era con lui uno dei suoi allievi, un ragazzo che non era ancora diventato incantatore ma che prometteva bene nell’arte della guarigione; e chiese: — Maestro, non si può far nulla per lui?

— No, da questa parte del muro — rispose il Maestro Guaritore. Poi, ricordandosi a chi parlava, disse: — Non è malato, ragazzo; ma anche se questa fosse una febbre o un’infermità del corpo, non so se le nostre arti servirebbero a molto. Sembra che da qualche tempo le mie erbe non abbiano più sapore; e sebbene io pronunci le parole dei nostri incantesimi, non hanno più virtù.

— È ciò che ha detto ieri il Maestro Cantore. Si è interrotto a metà di un canto che ci stava insegnando, e ha detto: «Non so cosa significhi questo canto». Ed è uscito dall’aula. Alcuni ragazzi hanno riso, ma io ho avuto l’impressione di sprofondare.

Il Guaritore scrutò il volto franco e intelligente del ragazzo, e poi abbassò lo sguardo su quello dell’Evocatore, freddo e rigido. — Ritornerà a noi — disse. — I canti non verranno dimenticati. Quella notte, il Maestro delle Metamorfosi se ne andò da Roke.

Nessuno lo vide partire. Dormiva in una camera con una finestra affacciata sul giardino; e alla mattina la finestra era aperta, e lui non c’era più. Pensarono che si fosse trasformato, mediante la sua arte, in un uccello o un quadrupede, o forse in una nebbia o in un vento, perché non c’era forma o sostanza che non potesse assumere, e che avesse lasciato Roke, forse per andare in cerca dell’arcimago. Alcuni, sapendo che chi opera metamorfosi può restare prigioniero dei suoi stessi incantesimi se vengono meno la volontà o l’abilità, temettero per lui, ma non confidarono le loro paure.

E così, il Consiglio dei Saggi perse tre Maestri. Via via che i giorni passavano e non giungevano notizie dell’arcimago, e l’Evocatore giaceva come morto, e il Maestro delle Metamorfosi non ritornava, la tristezza e il gelo crebbero nella Grande Casa. I ragazzi bisbigliavano tra loro, e alcuni parlavano di lasciare Roke, poiché non veniva insegnato loro ciò che erano venuti a imparare. — Forse — disse uno, — erano menzogne fin dall’inizio, queste arti segrete, questi poteri. Tra tutti i Maestri, solo il Maestro delle Mani esegue ancora i suoi trucchi: e quelli, lo sappiamo, sono illusioni dichiarate. E adesso gli altri si nascondono, o rifiutano di fare qualunque cosa, perché i loro trucchi sono stati scoperti. — Un altro, che l’aveva ascoltato, replicò: — Ebbene, cos’è la magia? Cos’è quest’arte, se non un gioco di apparenze? Ha mai salvato un uomo dalla morte, o gli ha dato la longevità? Senza dubbio, se i maghi avessero il potere che affermano di possedere vivrebbero tutti in eterno! — E lui e l’altro ragazzo cominciarono a raccontare le morti dei grandi maghi, e come Morred era stato ucciso in battaglia, e Nereger dal Mago Grigio, e Erreth-Akbe da un drago, e Gensher, l’ultimo arcimago, da una malattia, nel suo letto, come un uomo qualunque. Alcuni degli altri ragazzi ascoltavano lieti, poiché avevano l’invidia nel cuore; ma altri, ascoltando, si rattristarono.

E per tutto quel tempo, il Maestro degli Schemi rimase solo nel Bosco Immanente, e non lasciò che nessuno vi penetrasse.

Ma il Portinaio, sebbene si mostrasse di rado, non era cambiato. Non c’erano ombre, nei suoi occhi. Sorrideva, e teneva pronte le porte della Grande Casa per il ritorno del suo signore.

LO STRETTO DEI DRAGHI

Sulle acque esterne dello Stretto Occidentale, il signore dell’isola dei Saggi, svegliandosi intorpidito e rigido a bordo di una piccola barca in un freddo mattino luminoso, si levò a sedere e sbadigliò. E dopo un momento, tendendo il braccio verso nord, disse al compagno, che sbadigliava a sua volta: — Là! Quelle due isole, le vedi? Sono le isole più meridionali dello Stretto dei Draghi.

— Tu hai occhi d’aquila, mio signore — commentò Arren, scrutando il mare con gli occhi assonnati, senza scorgere nulla.

— Io sono lo Sparviero — disse il mago; era ancora gaio, e sembrava che scacciasse da sé ogni triste presentimento. — Non riesci a vederle?

— Vedo i gabbiani — rispose Arren dopo essersi stropicciato gli occhi, scrutando l’orizzonte azzurro-grigio davanti alla barca.

Il mago rise. — Neppure un falco potrebbe vedere i gabbiani a una distanza di venti miglia.

Quando il sole si ravvivò sopra le nebbie a oriente, i minuscoli punti volteggianti che Arren osservava parvero scintillare, come polvere d’oro scossa nell’acqua o particelle di polvere in un raggio di sole. E allora Arren si accorse che erano draghi.

Mentre la Vistacuta si avvicinava alle isole, Arren vide i draghi che volavano in cerchio e planavano sul vento mattutino, e il cuore gli balzò di gioia, la gioia dell’esaudimento che quasi sembrava sofferenza. Tutta la gloria della mortalità era nel loro volo. La loro bellezza era fatta di forza terribile, scatenata e selvaggia, e dell’eleganza della ragione. Perché erano creature pensanti, dotate di eloquio e di un’antica saggezza: nelle trame del loro volo c’era una fiera e voluta concordia.

Arren non disse nulla, ma pensò: non m’importa ciò che verrà poi; ho visto i draghi nel vento del mattino.

Talvolta le trame diventavano scomposte, e i cerchi si spezzavano, e spesso, nel volo, un drago eruttava dalle narici un lungo getto di fiamma che s’incurvava e restava librato nell’aria per un momento, ripetendo la curva e il fulgore del lungo corpo arcuato del drago. Nel vederlo, il mago disse: — Sono irati. Danzano sfogando la loro collera nel vento.

E poi disse: — Ormai siamo nel nido dei calabroni. — Perché i draghi avevano visto la piccola vela sulle onde, e prima uno e poi un altro si staccarono dal vortice della danza e discesero, protesi nell’aria, remigando con le grandi ali verso la barca.

Il mago guardò Arren, che stava seduto al timone poiché le onde erano agitate e contrarie. Il ragazzo lo teneva saldo con mano ferma, sebbene i suoi occhi seguissero il battito di quelle ali. Sparviero tornò a voltarsi, come se fosse soddisfatto, e lasciò che il vento magico abbandonasse la vela. Alzò il bastone e parlò a voce alta.

Al suono di quella voce, alle parole della vecchia Lingua, alcuni draghi volteggiarono in volo, disperdendosi, e ritornarono alle isole. Altri si fermarono e rimasero librati nell’aria, con gli artigli simili a spade protesi ma trattenuti. Uno, scendendo più basso sull’acqua, volò lentamente verso di loro: con due colpi d’ala giunse sopra la barca. Il ventre corazzato sfiorò la cima dell’albero. Arren vide la pelle rugosa e priva di squame tra la giuntura interna della spalla e il petto, che, insieme all’occhio, è l’unica parte vulnerabile del drago, a meno che la lancia che lo colpisce sia dotata di un incantesimo possente. Il fumo che usciva a volute dalla lunga bocca dentata lo soffocava; e insieme al fumo veniva un lezzo di carogna che lo fece rabbrividire e l’assalì provocando conati di vomito.

L’ombra passò. Ritornò, bassa come prima, e questa volta Arren sentì il rovente soffio di fornace dell’alito che precedeva il fumo. Udì la voce di Sparviero, chiara e intensa. Il drago passò oltre. Poi tutti si allontanarono, ritornando verso le isole come lapilli ardenti portati da una raffica di vento.

Arren trattenne il respiro e si terse la fronte, coperta di sudore freddo. Guardò il suo compagno, e vide che la chioma gli si era sbiancata: l’alito del drago aveva bruciato e increspato la punta dei capelli. E la pesante vela era strinata e brunita da un lato.

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