Ursula Le Guin - La spiaggia più lontana

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La pace che sembrava tornata nel mondo fatato di Earthsea dopo la riconquista da parte di Ged della metà mancante dell’anello magico di Erreth-Akbe nei labirinti oscuri delle tombe di Atuan, è di nuovo in pericolo: Arren, il giovane principe di Enlad, la più antica casata di Earthsea, viene personalmente all’isola di Roke per avvertire l’Arcimago Ged, ormai maturo e famoso in tutto il mondo, che la magia va scomparendo in tutte le terre del Nord. Nessuno sa il perché, ma gli antichi incantesimi non funzionano più ed i maghi vanno perdendo la conoscenza della “lingua antica” che era alla base della loro forza.
Così, per scoprire da dove provenga questa minaccia che allarga con tanta rapidità la sua sfera d’influenza, Ged ed Arren, l’uomo saggio ed il fanciullo inesperto, partono per un viaggio che sarà una vera e propria odissea: un lungo vagabondare attraverso le isolette e le genti di Earthsea che li porterà ad affrontare pericoli di tutti i generi (briganti, mercanti di schiavi, traversate avventurose in mari burrascosi), fino a giungere all’ultima spiaggia, a Selidor, l’isola all’estremità del mondo, dove risiedono i draghi, ed ancora più oltre, in un luogo desolato da cui nessuno fa mai ritorno.
La spiaggia più lontana conclude il ciclo di Ged, un ciclo di rara bellezza letteraria e di grande coerenza interna, che accoppia ad una poetica narrazione di eroiche gesta, un’allegorica riflessione sull’equilibrio cosmico e sull’essenza della vita.

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Il Maestro delle Metamorfosi, che aveva i capelli grigi, teneva tra le mani una grande pietra simile a un diamante grezzo. Era un cristallo di rocca, e all’interno era lievemente colorato d’ametista e di rosa ma limpido come l’acqua. Eppure, quando l’occhio guardava quella chiarità, vi trovava l’assenza della chiarezza, e non vi scorgeva i riflessi e le immagini di ciò che stava intorno ma soltanto piani e profondità sempre più remoti, fino a quando veniva guidato nel sogno e non trovava più una via d’uscita. Era la Pietra di Shelieth. Per molto tempo era rimasta in possesso dei principi di Way, talvolta come un semplice gingillo del loro tesoro, talvolta come un talismano contro l’insonnia, talvolta per uno scopo ben più terribile: perché coloro che guardavano troppo a lungo e senza comprensione nell’infinita profondità del cristallo potevano impazzire. L’arcimago Gensher di Way, quando era venuto a Roke, aveva portato con sé la Pietra di Shelieth, perché nelle mani di un mago rivelava la verità.

Eppure la verità varia con l’uomo.

Perciò il Maestro delle Metamorfosi, reggendo nelle mani la pietra e scrutando nelle infinite profondità pallide e scintillanti attraverso la superficie irregolare, parlava a voce alta dicendo ciò che vedeva: — Vedo la terra, come se fossi sul monte Onn al centro del mondo e la scorgessi tutta ai miei piedi, fino alla più lontana isola dello stretto più lontano, e anche oltre. E tutto è chiaro. Vedo navi nei canali di Ilien, e i fuochi di Torheven, e i tetti della torre dove stiamo ora. Ma al di là di Roke, non vedo nulla. A sud non ci sono terre. A ovest non ci sono terre. Non riesco a scorgere Wathort dove dovrebbe essere, né una sola delle isole dello Stretto Occidentale, neppure quelle vicine come Pendor. E Osskil e Ebosskil, dove sono? C’è una nebbia su Enlad, un grigiore, come una ragnatela. Ogni volta che guardo, altre isole sono scomparse e il mare dove stavano è vuoto e ininterrotto com’era prima della Creazione… — E la sua voce s’impuntò sull’ultima parola, come se gli salisse con difficoltà alle labbra.

Depose la pietra sul sostegno d’avorio e si scostò. Il suo volto mite era teso. Chiese: — Dimmi cosa vedi tu.

Il Maestro Evocatore prese tra le mani il cristallo e lo rigirò lentamente, come se cercasse sulla ruvida superficie vitrea un varco per vedere all’interno. Lo rigirò a lungo, con espressione intenta. Alla fine lo posò e disse: — Maestro delle Metamorfosi, vedo ben poco. Frammenti che non formano un tutto.

Il Maestro dai capelli grigi contrasse le mani. — E questo non è strano?

— Perché?

— I tuoi occhi sono spesso ciechi? — gridò il Maestro delle Metamorfosi, come se fosse incollerito. — Non vedi che c’è… — Balbettò parecchie volte, prima di poter parlare. — Non vedi che c’è una mano sopra i tuoi occhi, come c’è una mano sulla mia bocca?

L’Evocatore disse: — Sei troppo agitato, mio signore.

— Chiama la Presenza della Pietra — replicò il Maestro delle Metamorfosi, dominandosi ma parlando con voce piuttosto soffocata.

— Perché?

— Perché te lo chiedo io.

— Su, Maestro delle Metamorfosi, mi stai sfidando… come se fossimo due ragazzi davanti alla tana dell’orso? Siamo forse due bambini?

— Sì! Di fronte a ciò che vedo nella Pietra di Shelieth, io sono un bambino… un bambino impaurito. Chiama la Presenza della Pietra. Devo implorarti, mio signore?

— No — disse l’alto Maestro, ma aggrottò la fronte e voltò le spalle all’uomo più vecchio. Poi, spalancando le braccia nel grande gesto che dà inizio agli incantesimi della sua arte, levò la testa e pronunciò le sillabe dell’invocazione. Mentre parlava, una luce si accese entro la Pietra di Shelieth. Intorno, la stanza si oscurò e le ombre si addensarono. Quando le ombre furono cupe e la pietra lucentissima, il mago giunse le mani, alzò il cristallo davanti alla faccia e ne scrutò lo splendore.

Tacque per lunghi istanti e poi parlò. — Vedo la Fontana di Shelieth — disse a bassa voce. — Le vasche e i bacini e le cascate, le grotte sgocciolanti dalle cortine argentee, dove le felci crescono su banchi di muschio, le sabbie increspate, gli zampilli delle acque e il loro scorrere, lo sgorgare delle fonti dalle profondità della terra, il mistero e la dolcezza della sorgente, la fonte… — Tacque di nuovo, e rimase in silenzio per qualche tempo, e nella luce della pietra il suo volto era pallido come l’argento. Poi lanciò un grido inarticolato, lasciò cadere con uno schianto il cristallo e piombò in ginocchio, nascondendosi la faccia tra le mani.

Non c’erano ombre. Il sole dell’estate riempiva la stanza ingombra. La grande pietra stava sotto un tavolo, tra la polvere, indenne.

L’Evocatore protese le braccia, ciecamente, afferrando la mano dell’altro, come un bambino. Tirò un profondo respiro. Infine si rialzò, appoggiandosi un po’ al Maestro delle Metamorfosi, e disse, con labbra tremanti, sforzandosi di sorridere: — Non accetterò mai più le tue sfide, mio signore.

— Cos’hai visto, Thorion?

— Ho visto le fontane. Le ho viste sprofondare, e i ruscelli inaridirsi, e gli orli dell’acqua ritirarsi. E sotto era tutto nero e arido. Tu hai visto il mare prima della Creazione, ma io ho visto… ciò che viene dopo: ho visto l’Annientamento. — Si umettò le labbra. — Vorrei che l’arcimago fosse qui — aggiunse.

— Io vorrei che fossimo là insieme a lui.

— Dove? Ormai nessuno può trovarlo. — L’Evocatore alzò lo sguardo verso le finestre, che mostravano il cielo azzurro e tranquillo. — Nessun messaggio può raggiungerlo, nessun richiamo può arrivare fino a lui. È là dove tu hai visto il mare vuoto. Sta per giungere al luogo dove le fonti s’inaridiscono. È là dove le nostre arti non servono a nulla… Eppure, forse ancora adesso ci sono incantesimi che potrebbero raggiungerlo: alcuni di quelli che sono contenuti nella tradizione di Paln.

— Ma sono incantesimi che servono a riportare i morti tra i vivi.

— Alcuni portano i vivi tra i morti.

— Non lo credi morto?

— Io credo che vada verso la morte, che ne sia attratto. E così è per tutti noi. Il nostro potere ci abbandona, e anche la nostra forza, e la speranza e la fortuna. Le fonti s’inaridiscono.

Il Maestro delle Metamorfosi lo guardò a lungo, con aria turbata. — Non cercare di inviargli un messaggio — disse infine. — Sapeva ciò che cercava, molto prima che lo sapessimo noi. Per lui il mondo è come questa Pietra di Shelieth: guarda e vede ciò che è e ciò che deve essere… Non possiamo aiutarlo. I grandi incantesimi sono divenuti molto pericolosi, e tra tutti il pericolo più grande sta nella tradizione di cui hai parlato. Dobbiamo resistere, come lui ci ha ordinato, e proteggere le mura di Roke e il ricordo dei Nomi.

— Sì — replicò l’Evocatore. — Ma io devo andare a riflettere su tutto questo. — E lasciò la stanza della torre, camminando a passo rigido e tenendo alta la nobile testa bruna.

Il mattino dopo, il Maestro delle Metamorfosi andò a cercarlo. Entrò nella sua stanza dopo aver bussato invano, e lo trovò disteso sul pavimento di pietra, come se fosse stato scagliato all’indietro da un colpo fortissimo. Le sue braccia erano spalancate, come nel gesto dell’invocazione, ma le sue mani erano fredde e gli occhi spalancati non vedevano. Sebbene il Maestro delle Metamorfosi s’inginocchiasse accanto a lui e lo chiamasse con l’autorità di un mago, pronunciando il suo nome, per tre volte, Thorion continuò a restare immoto. Non era morto: ma c’era in lui solo abbastanza vita per far battere il suo cuore molto lentamente e per mantenere un po’ di respiro nei suoi polmoni. Il Maestro delle Metamorfosi gli prese le mani e, stringendole, mormorò: — Oh, Thorion, io ti ho costretto a guardare nella Pietra. Questa è opera mia! — Poi, uscito in fretta dalla camera, gridò a tutti coloro che incontrava, Maestri e discepoli: — Il nemico è penetrato fra noi, in Roke così ben difesa, e ha colpito al cuore la nostra forza! — Sebbene fosse un uomo mite, appariva tanto folle e gelido che quanti lo vedevano ne avevano paura. — Prendetevi cura del Maestro Evocatore — disse. — Tuttavia, chi richiamerà il suo spirito, dato che lui, il maestro della sua arte, non c’è più?

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