Ursula Le Guin - La spiaggia più lontana

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La pace che sembrava tornata nel mondo fatato di Earthsea dopo la riconquista da parte di Ged della metà mancante dell’anello magico di Erreth-Akbe nei labirinti oscuri delle tombe di Atuan, è di nuovo in pericolo: Arren, il giovane principe di Enlad, la più antica casata di Earthsea, viene personalmente all’isola di Roke per avvertire l’Arcimago Ged, ormai maturo e famoso in tutto il mondo, che la magia va scomparendo in tutte le terre del Nord. Nessuno sa il perché, ma gli antichi incantesimi non funzionano più ed i maghi vanno perdendo la conoscenza della “lingua antica” che era alla base della loro forza.
Così, per scoprire da dove provenga questa minaccia che allarga con tanta rapidità la sua sfera d’influenza, Ged ed Arren, l’uomo saggio ed il fanciullo inesperto, partono per un viaggio che sarà una vera e propria odissea: un lungo vagabondare attraverso le isolette e le genti di Earthsea che li porterà ad affrontare pericoli di tutti i generi (briganti, mercanti di schiavi, traversate avventurose in mari burrascosi), fino a giungere all’ultima spiaggia, a Selidor, l’isola all’estremità del mondo, dove risiedono i draghi, ed ancora più oltre, in un luogo desolato da cui nessuno fa mai ritorno.
La spiaggia più lontana conclude il ciclo di Ged, un ciclo di rara bellezza letteraria e di grande coerenza interna, che accoppia ad una poetica narrazione di eroiche gesta, un’allegorica riflessione sull’equilibrio cosmico e sull’essenza della vita.

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Sparviero lo guardò e rise. — Sì. Questa volta non ci smarriremo, credo.

Così i due incominciarono la grande corsa attraverso l’oceano. Erano mille miglia e più, dai mari inesplorati del popolo delle zattere fino all’isola di Selidor, che è la più occidentale di tutte le terre di Earthsea. Uno dopo l’altro, i giorni sorgevano splendenti dal sereno orizzonte e discendevano nel rosseggiante occaso; e sotto l’arco d’oro del sole e l’argenteo volteggiare delle stelle la barca correva verso nord, tutta sola sul mare.

Talvolta i nembi temporaleschi dell’estate si ammassavano in lontananza, gettando ombre purpuree sull’orizzonte: allora Arren restava a guardare mentre il mago si alzava e con la voce e la mano chiamava quelle nubi perché venissero verso di loro e lasciassero cadere la pioggia sulla barca. Il lampo guizzava tra le nuvole, e il tuono muggiva. E il mago rimaneva ritto, con la mano levata, fino a quando la pioggia cadeva su di lui e su Arren e nei recipienti che avevano preparato, e nella barca e sul mare, appiattendo le onde con la sua violenza. Il mago e Arren sorridevano di piacere perché avevano cibo a sufficienza, se non in abbondanza, ma avevano bisogno d’acqua dolce. E il furioso splendore del temporale che ubbidiva al mago li deliziava.

Arren si stupiva del potere che adesso il suo compagno usava con tanta disinvoltura, e una volta disse: — Quando abbiamo incominciato il viaggio, tu non operavi incantesimi.

— La prima lezione, a Roke, e l’ultima, è: fa ciò che è necessario, niente di più.

— E le lezioni di mezzo, quindi, devono consistere nell’imparare ciò che è necessario.

— Infatti. Bisogna tener presente l’Equilibrio. Ma quando lo stesso Equilibrio è infranto… allora si considerano altre cose. Soprattutto, la necessità di affrettarsi.

— Ma come mai tutti i maghi del sud, e delle altre terre, ormai, e perfino i cantori delle zattere, hanno perso tutta la loro arte ma tu hai conservato la tua?

— Perché io non desidero nulla oltre alla mia arte — rispose Sparviero.

Dopo qualche istante aggiunse, più allegramente: — E se presto dovrò perderla, cercherò di sfruttarla finché dura.

Adesso c’era veramente in lui una specie di spensieratezza, un senso di piacere per le sue facoltà, che Arren, vedendolo sempre così cauto, non aveva immaginato. La mente del mago si rallegra dei trucchi: un mago è anche un prestigiatore. Il camuffamento di Sparviero a Città Hort, che aveva tanto turbato Arren, per lui era stato un gioco: un gioco di poco conto, per uno che poteva trasformare a volontà non soltanto il volto e la voce ma anche il corpo e l’intero essere e così diventare un pesce, un delfino o un falco, come preferiva. E una volta disse: — Guarda, Arren: ti mostrerò Gont. — E gli disse di guardare la superficie del barile dell’acqua, che aveva scoperchiato e che era pieno fino all’orlo. Molti semplici incantatori sanno far apparire un’immagine nello specchio dell’acqua, e così aveva fatto anche lui: una grande montagna inghirlandata di nubi, che sorgeva dal mare grigio. Poi l’immagine cambiò, e Arren vide chiaramente uno strapiombo, su quell’isola. Gli sembrava di essere un uccello, gabbiano o falcone, librato nel vento a una certa distanza dalla riva, e di guardare attraverso il vento il precipizio che saliva torreggiando dai frangenti per seicento braccia. In alto, sul ciglio, c’era una casetta. — Quello è Re Albi — disse Sparviero, — e là vive il mio maestro Ogion, che molto tempo fa arrestò un terremoto. Bada alle sue capre, e raccoglie erba, e tace. Mi chiedo se vaga ancora sulla montagna: ormai è molto vecchio. Ma lo saprei, lo saprei sicuramente, anche ora, se Ogion morisse… — Non c’era certezza, nella sua voce; per un momento l’immagine tremolò, come se l’immensa parete di roccia precipitasse. Poi l’immagine si schiarì, e si schiarì anche la sua voce. — Andava solo tra le foreste, nella tarda estate e in autunno. Fu così che m’incontrò per la prima volta, quando ero un bambinetto di un villaggio di montagna, e mi diede il mio nome. E con il nome, la vita. — L’immagine mostrata dallo specchio d’acqua appariva adesso come se l’osservatore fosse un uccello tra i rami della foresta e scrutasse i prati digradanti e assolati sotto la roccia e la neve della vetta, lungo una strada scoscesa che scendeva in un’oscurità verde screziata d’oro. — Non esiste un silenzio come il silenzio di quelle foreste — disse Sparviero, in tono di nostalgia.

L’immagine sbiadì, e rimase soltanto l’abbacinante disco del sole meridiano riflesso nell’acqua del barile.

— Là — disse Sparviero, e rivolse ad Arren uno sguardo strano e ironico, — là, se mai potessi ritornarvi, neppure tu potresti seguirmi.

Davanti a loro c’era la terra, bassa e azzurra nel pomeriggio come un banco di nebbia. — È Selidor? — chiese Arren, e il suo cuore batté più rapido; ma il mago rispose: — Obb, credo, o Jessage. Non siamo ancora a metà strada, ragazzo.

Quella notte attraversarono lo stretto fra le due isole. Non videro neppure una luce, ma nell’aria c’era un odore di fumo, così pesante da bruciare i polmoni. Quando venne il giorno, e si voltarono a guardare, l’isola orientale, Jessage, appariva annerita e bruciata fin dove potevano vedere nell’entroterra, e sopra vi aleggiava una foschia azzurra e opaca.

— Hanno bruciato i campi — disse Arren.

— Sì. E i villaggi. Ho già sentito l’odore di quel fumo.

— Sono selvaggi, qui in occidente?

Sparviero scosse la testa. — Contadini; cittadini.

Arren fissò la nera terra devastata e gli scarni alberi dei frutteti contro lo sfondo del cielo; e il suo volto era duro. — Che male gli hanno fatto, gli alberi? — chiese. — Devono punire l’erba per le loro colpe? Sono selvaggi, gli uomini che incendiano una terra perché hanno motivi di dissidio con altri uomini.

— Non hanno una guida — disse Sparviero. — Non hanno un re; e i potenti e i maghi, dimentichi di tutto e rinchiusi ciascuno nella propria mente, stanno cercando la porta che conduce oltre la morte. Era così nel sud, e penso che sia così anche qui.

— E tutto questo è opera di un uomo solo, quello di cui ha parlato il drago? Non mi sembra possibile.

— Perché no? Se ci fosse un Re delle Isole, sarebbe un uomo solo. E regnerebbe. Un uomo può distruggere con la stessa facilità con cui può governare: può essere re o antiré.

Nella voce di Sparviero c’era di nuovo quel tono di sarcasmo o di sfida che irritava Arren.

— Un re ha servi, soldati, messaggeri, luogotenenti. Governa per mezzo dei suoi servitori. Dove sono i servitori di questo… antiré?

— Nelle nostre menti, ragazzo. Nelle nostre menti. Il traditore è l’io: l’io che grida Voglio vivere; bruci pure il mondo, purché io viva! La piccola anima traditrice dentro di noi, nell’oscurità, come il verme nella mela. Lui parla a tutti noi. Ma soltanto alcuni lo comprendono. I maghi e gli incantatori. I cantori, i creatori. E gli eroi, coloro che cercano di essere se stessi. E essere se stessi è una cosa rara e grande. Essere se stessi per sempre : non è ancora meglio?

Arren guardò in faccia Sparviero. — Tu mi diresti che non è meglio. Ma spiegami il perché. Ero un bambino quando ho incominciato questo viaggio, un bambino che non credeva nella morte. Tu mi ritieni ancora un bambino, ma ho imparato qualcosa; forse non molto, ma qualcosa; ho imparato che la morte esiste e che dovrò morire. Ma non ho imparato a rallegrarmi di questa certezza, ad accogliere con gioia la mia morte o la tua. Se amo la vita, non devo odiarne la fine? Perché non dovrei desiderare l’immortalità?

Il maestro di scherma di Arren, a Berila, era stato un uomo sulla sessantina, basso e calvo e freddo. Arren l’aveva detestato per anni, sebbene sapesse che era uno spadaccino eccezionale. Ma un giorno, durante un’esercitazione, l’aveva colto alla sprovvista e quasi l’aveva disarmato; e in seguito non aveva mai dimenticato l’incredula e incongrua felicità che era apparsa all’improvviso sul freddo volto del maestro, la speranza, la gioia: un suo pari, finalmente un suo pari! A partire da quel momento il maestro di scherma l’aveva addestrato spietatamente; e ogni volta che si esercitavano, lo stesso sorriso implacabile riappariva sul volto del vecchio e si ravvivava quando Arren lo incalzava. E adesso la stessa espressione era sul volto di Sparviero, il bagliore dell’acciaio nel sole.

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