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Ursula Le Guin: La spiaggia più lontana

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Ursula Le Guin La spiaggia più lontana

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La pace che sembrava tornata nel mondo fatato di Earthsea dopo la riconquista da parte di Ged della metà mancante dell’anello magico di Erreth-Akbe nei labirinti oscuri delle tombe di Atuan, è di nuovo in pericolo: Arren, il giovane principe di Enlad, la più antica casata di Earthsea, viene personalmente all’isola di Roke per avvertire l’Arcimago Ged, ormai maturo e famoso in tutto il mondo, che la magia va scomparendo in tutte le terre del Nord. Nessuno sa il perché, ma gli antichi incantesimi non funzionano più ed i maghi vanno perdendo la conoscenza della “lingua antica” che era alla base della loro forza. Così, per scoprire da dove provenga questa minaccia che allarga con tanta rapidità la sua sfera d’influenza, Ged ed Arren, l’uomo saggio ed il fanciullo inesperto, partono per un viaggio che sarà una vera e propria odissea: un lungo vagabondare attraverso le isolette e le genti di Earthsea che li porterà ad affrontare pericoli di tutti i generi (briganti, mercanti di schiavi, traversate avventurose in mari burrascosi), fino a giungere all’ultima spiaggia, a Selidor, l’isola all’estremità del mondo, dove risiedono i draghi, ed ancora più oltre, in un luogo desolato da cui nessuno fa mai ritorno. La spiaggia più lontana conclude il ciclo di Ged, un ciclo di rara bellezza letteraria e di grande coerenza interna, che accoppia ad una poetica narrazione di eroiche gesta, un’allegorica riflessione sull’equilibrio cosmico e sull’essenza della vita.

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Ursula Le Guin

La spiaggia più lontana

Solo nel silenzio la parola,
solo nella tenebra la luce,
solo nella morte è vita;
fulgido è il volo del falco
nel cielo deserto.

La creazione di Éa
LALBERO DI ROWAN Nel Cortile della Fontana il sole di marzo splendeva - фото 1

L’ALBERO DI ROWAN

Nel Cortile della Fontana il sole di marzo splendeva attraverso le giovani fronde dei frassini e degli olmi, e l’acqua zampillava e ricadeva nell’ombra e nella luce chiara. Il cortile scoperto era cinto da quattro alti muri di pietra. E oltre quei muri c’erano stanze e cortili, passaggi, corridoi, torri, e poi le mura di cinta della Grande Casa di Roke, capaci di resistere all’assalto della guerra o del terremoto o dello stesso mare, poiché erano costruite non solo di pietra ma anche di magia invincibile. Perché Roke è l’Isola dei Saggi, e vi viene insegnata l’arte magica; e la Grande Casa è la scuola e il centro della magia; è il luogo centrale della Casa è quel piccolo cortile, racchiuso tra i muri, dove zampilla la fontana e gli alberi stanno impavidi nella pioggia o nel sole o nella luce delle stelle.

L’albero più vicino alla fontana, un rowan poderoso, aveva aggobbito e screpolato la pavimentazione di marmo con le sue radici. Vene di muschio verde-vivo colmavano quelle crepe, diffondendosi dall’area erbosa intorno alla vasca. C’era un ragazzo, seduto lì su quella bassa gibbosità di marmo e di muschio, e seguiva con lo sguardo la caduta dello zampillo centrale della fontana. Era quasi un uomo, e tuttavia era ancora un ragazzo; snello, e vestito riccamente. Il suo volto sembrava fuso nel bronzo dorato, tanto era ben modellato e immobile.

Dietro di lui, a una quindicina di passi di distanza, sotto gli alberi all’estremità opposta del prato centrale, stava ritto un uomo: o almeno, tale appariva. Era difficile esserne certi, in quel mutevole fremito di ombre e di calda luce. Senza dubbio era presente: un uomo biancovestito, ritto e immobile. Mentre il ragazzo guardava la fontana, l’uomo guardava il ragazzo. Non c’erano suoni o movimenti: solo il gioco delle fronde e il gioco dell’acqua, e il suo canto incessante.

L’uomo avanzò. Un refolo di vento scosse l’albero di rowan, agitando le foglie appena dischiuse. Il ragazzo balzò in piedi, agile e sorpreso. Si voltò verso l’uomo e s’inchinò. — Mio signore arcimago — disse.

L’uomo si fermò davanti a lui: una figura non troppo alta, eretta, vigorosa, in un manto di lana bianca con cappuccio. Al di sopra delle pieghe del cappuccio abbassato, il suo volto grifagno, bruno-rossicico, con una guancia sfigurata da vecchie cicatrici. Gli occhi erano vividi e ardenti, fierissimi. Tuttavia parlò in tono gentile. — È un luogo piacevole per sostare, il Cortile della Fontana — disse; e poi, prevenendo le parole di scusa del ragazzo: — Tu hai compiuto un lungo viaggio e non hai riposato. Torna a sederti.

S’inginocchiò sul candido bordo della vasca e protese la mano verso il cerchio di gocce scintillanti che cadevano dalla conca più alta della fontana, lasciandosi scorrere l’acqua tra le dita. Il ragazzo si sedette di nuovo sulle piastrelle aggobbite, e per un attimo nessuno dei due parlò.

— Tu sei il figlio del principe di Enlad e delle Enlades — disse l’arcimago, — erede del principato di Morred. Non esiste un’eredità più antica, in tutto Earthsea, né più bella. Ho visto i frutteti di Enlad in primavera e gli aurei tetti di Berila… Come ti chiami?

— Mi chiamo Arren.

— Dev’essere una parola del dialetto della tua terra. Cosa significa, nella nostra lingua comune?

Il ragazzo disse: — Spada.

L’arcimago annuì. Ci fu di nuovo un silenzio, e poi il ragazzo disse, senza baldanza ma senza timidezza: — Pensavo che l’arcimago conoscesse tutte le lingue.

L’uomo scosse il capo, guardando la fontana.

— E tutti i nomi…

— Tutti i nomi? Soltanto Segoy, che pronunciò la Prima Parola facendo sorgere tutte le isole dal profondo del mare, conosceva tutti i nomi. — Lo sguardo vivido e ardente si fissò sul volto di Arren. — Certo, se mi fosse necessario conoscere il tuo nome lo conoscerei. Ma non è necessario. Ti chiamerò Arren; e io sono Sparviero. Dimmi, com’è stato il viaggio che ti ha condotto qui?

— Troppo lungo.

— I venti erano contrari?

— I venti erano propizi, mio signore Sparviero, ma le notizie che porto sono nefaste.

— E allora dille — invitò in tono grave l’arcimago, ma come se accondiscendesse all’impazienza di un bambino; e mentre Arren parlava, guardò ancora il velo cristallino di gocciole d’acqua che cadevano dalla vasca superiore a quella inferiore, non già come se non ascoltasse ma come se ascoltasse qualcosa di più delle parole del ragazzo.

— Tu sai, mio signore, che il principe mio padre è un mago, poiché appartiene alla stirpe di Morred e in gioventù ha trascorso un anno qui a Roke. Possiede un certo potere e una certa conoscenza, sebbene usi raramente le sue arti poiché è troppo preso dal governo del suo reame, delle città e del commercio. Le flotte delle nostre isole si avventurano verso l’orizzonte fino allo Stretto Occidentale, per acquistare zaffiri e pelli di bue e stagno, e all’inizio dell’inverno un capitano è ritornato alla nostra città, Berila, e ha raccontato in giro una storia che è giunta fino agli orecchi di mio padre; e lui l’ha mandato a chiamare perché gliela ripetesse. — Il ragazzo parlava rapidamente, in tono sicuro. Era stato educato tra genti civili e raffinate, e non aveva la solita timidezza vergognosa dei giovani.

— Il capitano ha detto che sull’isola di Narveduen, situata all’incirca a cinquecento miglia da noi, verso occidente, sulle rotte delle navi, non c’è più magia. Gli incantesimi non vi avevano potere, ha detto, e le parole dell’arte erano state dimenticate. Mio padre ha chiesto se tutti gli incantatori e le streghe avevano abbandonato l’isola, e quello ha risposto di no: c’erano alcuni che erano stati incantatori, ma non gettavano più sortilegi, neppure i più modesti, per riparare le brocche o ritrovare un ago perduto. E mio padre ha domandato se la popolazione di Narveduen non era sconfortata. E il capitano ha risposto nuovamente di no: sembrava che non se ne curassero. E in verità, ha riferito, tra loro c’erano molte infermità, e il raccolto autunnale era stato molto scarso, eppure sembrava che non si curassero neppure di questo. Ha detto (io ero presente, quando ha parlato al principe): «Erano come malati; come un uomo cui è stato detto che deve morire entro l’anno ma pensa che la profezia non è vera e che vivrà in eterno. Se ne vanno in giro», ha detto, «senza guardare il mondo». Quando hanno fatto ritorno altri due mercanti, hanno confermato che Narveduen era divenuta una terra povera e aveva perso l’arte della magia. Ma erano soltanto le dicerie dello Stretto Occidentale, che sono sempre state strane; e mio padre è stato l’unico a darsene veramente pensiero.

«Poi, nell’Anno Nuovo, alla Festa degli Agnelli che si celebra a Enlad, quando le mogli dei pastori vengono in città portando i primi nati del gregge, mio padre ha designato l’incantatore Radice perché pronunciasse sugli agnelli le formule magiche della crescita. Ma Radice è tornato al nostro palazzo con aria depressa, ha deposto il bastone e ha detto: "Mio signore, non posso recitare gli incantesimi". Mio padre l’ha interrogato, ma quello ha saputo rispondere soltanto: "Ho dimenticato le parole e lo schema". Allora mio padre si è recato sulla piazza del mercato e ha recitato personalmente gli incantesimi, e la festa si è compiuta. Ma quella sera io l’ho visto rientrare nel palazzo; ed era incupito e stanco, e mi ha detto: "Ho pronunciato le parole, ma non so se avessero un significato". E in verità ci sono stati guai nelle greggi, questa primavera: molte pecore sono morte di parto, e molti agnelli sono nati morti, e alcuni sono… deformi. — La voce ferma e diligente del ragazzo si abbassò; rabbrividì nel pronunciare quella parola, e deglutì. — Ne ho visto qualcuno — disse. Ci fu una pausa.

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