Ursula Le Guin - La spiaggia più lontana

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La pace che sembrava tornata nel mondo fatato di Earthsea dopo la riconquista da parte di Ged della metà mancante dell’anello magico di Erreth-Akbe nei labirinti oscuri delle tombe di Atuan, è di nuovo in pericolo: Arren, il giovane principe di Enlad, la più antica casata di Earthsea, viene personalmente all’isola di Roke per avvertire l’Arcimago Ged, ormai maturo e famoso in tutto il mondo, che la magia va scomparendo in tutte le terre del Nord. Nessuno sa il perché, ma gli antichi incantesimi non funzionano più ed i maghi vanno perdendo la conoscenza della “lingua antica” che era alla base della loro forza.
Così, per scoprire da dove provenga questa minaccia che allarga con tanta rapidità la sua sfera d’influenza, Ged ed Arren, l’uomo saggio ed il fanciullo inesperto, partono per un viaggio che sarà una vera e propria odissea: un lungo vagabondare attraverso le isolette e le genti di Earthsea che li porterà ad affrontare pericoli di tutti i generi (briganti, mercanti di schiavi, traversate avventurose in mari burrascosi), fino a giungere all’ultima spiaggia, a Selidor, l’isola all’estremità del mondo, dove risiedono i draghi, ed ancora più oltre, in un luogo desolato da cui nessuno fa mai ritorno.
La spiaggia più lontana conclude il ciclo di Ged, un ciclo di rara bellezza letteraria e di grande coerenza interna, che accoppia ad una poetica narrazione di eroiche gesta, un’allegorica riflessione sull’equilibrio cosmico e sull’essenza della vita.

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— Taci, ragazzo — disse il mago, con tanta fermezza che Arren ubbidì. E poi: — Dimmi cosa pensavi, allora.

— Nulla, mio signore… nulla! Pensavo che fosse inutile fare qualunque cosa. Pensavo che la tua magia fosse svanita… no, che non fosse esistita mai. Che tu mi avessi ingannato. — Il sudore sgorgò sul volto di Arren: dovette farsi forza, per continuare a parlare. — Avevo paura di te. Avevo paura della morte. Ne avevo tanta paura che non ti guardavo, perché potevi essere moribondo. Non riuscivo a pensare a nulla, se non che c’era… che per me c’era un modo per non morire, se fossi riuscito a trovarlo. Ma la vita scorreva via, come se ci fosse stata una grande ferita e ne sgorgasse il sangue… come la tua ferita. Ma questa era in ogni cosa. E io non facevo nulla, nulla: cercavo solo di nascondermi all’orrore della morte.

Arren s’interruppe, perché dire a voce alta la verità era insopportabile. Non era la vergogna a farlo tacere, ma la paura, la stessa paura. Adesso sapeva perché quella vita tranquilla fra mare e sole, a bordo delle zattere, gli sembrava l’aldilà o un sogno irreale. Perché in cuor suo sapeva che la realtà era vuota, priva di vita e di calore e di colore e di suono, priva di significato. Non c’erano altezza né profondità. Tutto quell’incantevole gioco di forme e luci e colori sul mare e negli occhi degli uomini non era altro che un gioco d’illusioni sul vuoto superficiale.

E tutto passava, e restavano soltanto il freddo e l’assenza di forme: nient’altro.

Sparviero lo stava scrutando, e lui aveva abbassato gli occhi per evitare quello sguardo. Ma inaspettatamente, nell’animo di Arren parlò una voce esile, la voce del coraggio o del sarcasmo; era arrogante e spietata, e diceva: — Vigliacco! Vigliacco! Vuoi gettar via perfino questo?

E allora alzò la testa, con un tremendo sforzo di volontà, e incontrò gli occhi del suo compagno.

Sparviero tese il braccio e gli prese la mano in una stretta dura: adesso tra loro c’era il contatto degli occhi e della carne. Disse il vero nome di Arren, che non aveva mai pronunciato: — Lebannen. — Lo ripeté: — Lebannen, tutto questo è. E tu sei. Non c’è sicurezza, e non c’è fine. La parola dev’essere udita nel silenzio; dev’esserci l’oscurità, perché si possano vedere le stelle. La danza viene sempre danzata sopra la cavità, sopra il terribile abisso.

Arren contrasse le mani e chinò la fronte, fino a premerla contro la mano di Sparviero. — Ti ho deluso — disse. — Ti deluderò ancora e deluderò me stesso. Non ho abbastanza forza!

— Tu hai abbastanza forza. — La voce del mago era tenera, ma sotto la tenerezza c’era la durezza che era emersa dalle profondità della vergogna di Arren e che adesso lo irrideva. — Ciò che tu ami, amerai. Ciò che intraprendi, lo completerai. Tu sei un realizzatore della speranza: su di te si può fare assegnamento. Ma diciassette anni non offrono una robusta armatura contro la disperazione… Rifletti, Arren. Rifiutare la morte è rifiutare la vita.

— Ma ho cercato la morte… per te e per me! — Arren alzò la testa e fissò Sparviero. — Come Sopli, che si è annegato…

— Sopli non cercava la morte. Cercava di fuggire dalla morte e dalla vita. Cercava la sicurezza: la fine della paura… la paura della morte.

— Ma c’è… c’è una via. C’è una via al di là della morte. Il ritorno alla vita. È questo… ciò che cercano. Lepre e Sopli, coloro che erano incantatori. È quello che noi cerchiamo. Tu… tu più di ogni altro devi sapere… devi conoscere quella via…

La forte mano del mago era ancora posata sulla sua. — Non la conosco — disse Sparviero. — Sì, so ciò che credono di cercare. Ma so che è una menzogna. Ascoltami, Arren. Tu morirai. Non vivrai in eterno. Nessun uomo, nessuna cosa vivrà in eterno. Non c’è nulla d’immortale. Ma solo a noi è dato sapere che dobbiamo morire. Ed è un grande dono: il dono dell’io. Perché noi abbiamo solo ciò che sappiamo di dover perdere, ciò che siamo disposti a perdere… Quell’io che è il nostro tormento, e il nostro tesoro e la nostra umanità, non dura. Cambia; sparisce, come un’onda sul mare. Vorresti che il mare diventasse immobile, che le maree cessassero, solo per salvare un’onda, per salvare te stesso? Vorresti rinunciare all’abilità delle tue mani, e alla passione del tuo cuore, e alla luce dell’aurora e del tramonto, per comprare la sicurezza per te stesso, la sicurezza eterna? È quanto cercano di fare a Wathort e a Lorbanery e altrove. Questo è il messaggio udito da coloro che sanno udire: negando la vita puoi negare la morte e vivere per sempre! E io non odo questo messaggio, Arren, perché non voglio udirlo. Non ascolterò il consiglio della disperazione. Sono sordo; sono cieco. Tu sei la mia guida. Tu, con la tua innocenza e il tuo coraggio, con la tua mancanza di sapienza e la tua lealtà, tu sei la mia guida… il bambino che invio davanti a me nell’oscurità. Ciò che io seguo è la tua paura, la tua sofferenza. Tu mi hai giudicato duro nei tuoi confronti, ma non hai mai saputo fino a che punto lo sono stato. Uso il tuo amore come un uomo che brucia una candela, e la consuma, per illuminarsi il cammino. E dobbiamo andare avanti. Dobbiamo andare avanti. Dobbiamo arrivare fino in fondo. Dobbiamo giungere al luogo dove il mare s’inaridisce e s’inaridisce la gioia, il luogo verso il quale ti attrae il tuo terrore mortale.

— Dov’è, mio signore?

— Non lo so.

— Non posso condurti là. Ma verrò con te,

Lo sguardo del mago, fisso su di lui, era cupo, insondabile.

— Se dovessi deluderti di nuovo, tradirti…

— Mi fiderò di te, figlio di Morred.

Poi tacquero entrambi.

Sopra di loro, gli alti idoli scolpiti ondeggiavano lievemente contro l’azzurro cielo meridionale: corpi di delfini, ali di gabbiani ripiegate, volti umani che avevano occhi spalancati, formati da conchìglie.

Sparviero si alzò, irrigidito perché non era ancora guarito dalla ferita. — Sono stanco di starmene seduto — disse. — Ingrasserò, nell’ozio. — Cominciò a camminare avanti e indietro, sulla zattera, e Arren l’accompagnò. Parlarono un poco mentre camminavano; Arren disse a Sparviero come trascorreva le giornate, e chi erano i suoi amici tra il popolo delle zattere. L’inquietudine di Sparviero era più grande della sua forza, che ben presto l’abbandonò. Si fermò accanto a una ragazza che intesseva il nilgu al telaio, dietro la Casa dei Grandi, e la pregò di cercare il capo; poi ritornò al suo riparo. Poco dopo sopraggiunse il capo del popolo delle zattere, salutandolo con una cortesia che il mago ricambiò; tutti e tre si sedettero sui tappeti di pelle di foca maculata.

— Ho pensato — incominciò il capo, lentamente e in tono solenne, — alle cose che mi hai detto. Agli uomini che credono di ritornare dalla morte nei loro corpi, e che cercando di far questo dimenticano la venerazione dovuta agli dèi e trascurano la propria persona e impazziscono. È un grande male e una grande follia. Ma ho anche pensato: questo ci riguarda? Noi non abbiamo nulla da spartire con gli altri uomini, le loro isole e i loro costumi, le loro azioni e distruzioni. Noi viviamo sul mare e le nostre vite appartengono al mare. Noi non speriamo di salvarle, non cerchiamo di perderle. Qui la follia non giunge. Noi non andiamo alla terraferma, e la gente della terraferma non viene da noi. Quando ero giovane, talvolta parlavamo con uomini che venivano con le barche alla Lunga Duna, quando noi vi andavamo a tagliare i tronchi per le zattere e per costruire i ripari per l’inverno. Spesso vedevamo le vele che provenivano da Ohol e Welway [così lui chiamava Obehol e Wellogy], seguendo le balene grige in autunno. Spesso seguivano le nostre zattere da lontano, perché noi conosciamo le strade e i luoghi di raduno dei Grandi, nel mare. Ma io non ho mai visto altra gente della terraferma, e adesso non vengono più. Forse sono tutti impazziti e hanno preso a combattersi tra loro. Due anni fa, sulla Lunga Duna, guardando a nord verso Welway, abbiamo visto per tre giorni il fumo di un grande incendio. E se anche è così, che importanza ha per noi? Noi siamo i Figli del Mare Aperto. Noi andiamo per le vie del mare.

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