— Taci, ragazzo — disse il mago, con tanta fermezza che Arren ubbidì. E poi: — Dimmi cosa pensavi, allora.
— Nulla, mio signore… nulla! Pensavo che fosse inutile fare qualunque cosa. Pensavo che la tua magia fosse svanita… no, che non fosse esistita mai. Che tu mi avessi ingannato. — Il sudore sgorgò sul volto di Arren: dovette farsi forza, per continuare a parlare. — Avevo paura di te. Avevo paura della morte. Ne avevo tanta paura che non ti guardavo, perché potevi essere moribondo. Non riuscivo a pensare a nulla, se non che c’era… che per me c’era un modo per non morire, se fossi riuscito a trovarlo. Ma la vita scorreva via, come se ci fosse stata una grande ferita e ne sgorgasse il sangue… come la tua ferita. Ma questa era in ogni cosa. E io non facevo nulla, nulla: cercavo solo di nascondermi all’orrore della morte.
Arren s’interruppe, perché dire a voce alta la verità era insopportabile. Non era la vergogna a farlo tacere, ma la paura, la stessa paura. Adesso sapeva perché quella vita tranquilla fra mare e sole, a bordo delle zattere, gli sembrava l’aldilà o un sogno irreale. Perché in cuor suo sapeva che la realtà era vuota, priva di vita e di calore e di colore e di suono, priva di significato. Non c’erano altezza né profondità. Tutto quell’incantevole gioco di forme e luci e colori sul mare e negli occhi degli uomini non era altro che un gioco d’illusioni sul vuoto superficiale.
E tutto passava, e restavano soltanto il freddo e l’assenza di forme: nient’altro.
Sparviero lo stava scrutando, e lui aveva abbassato gli occhi per evitare quello sguardo. Ma inaspettatamente, nell’animo di Arren parlò una voce esile, la voce del coraggio o del sarcasmo; era arrogante e spietata, e diceva: — Vigliacco! Vigliacco! Vuoi gettar via perfino questo?
E allora alzò la testa, con un tremendo sforzo di volontà, e incontrò gli occhi del suo compagno.
Sparviero tese il braccio e gli prese la mano in una stretta dura: adesso tra loro c’era il contatto degli occhi e della carne. Disse il vero nome di Arren, che non aveva mai pronunciato: — Lebannen. — Lo ripeté: — Lebannen, tutto questo è. E tu sei. Non c’è sicurezza, e non c’è fine. La parola dev’essere udita nel silenzio; dev’esserci l’oscurità, perché si possano vedere le stelle. La danza viene sempre danzata sopra la cavità, sopra il terribile abisso.
Arren contrasse le mani e chinò la fronte, fino a premerla contro la mano di Sparviero. — Ti ho deluso — disse. — Ti deluderò ancora e deluderò me stesso. Non ho abbastanza forza!
— Tu hai abbastanza forza. — La voce del mago era tenera, ma sotto la tenerezza c’era la durezza che era emersa dalle profondità della vergogna di Arren e che adesso lo irrideva. — Ciò che tu ami, amerai. Ciò che intraprendi, lo completerai. Tu sei un realizzatore della speranza: su di te si può fare assegnamento. Ma diciassette anni non offrono una robusta armatura contro la disperazione… Rifletti, Arren. Rifiutare la morte è rifiutare la vita.
— Ma ho cercato la morte… per te e per me! — Arren alzò la testa e fissò Sparviero. — Come Sopli, che si è annegato…
— Sopli non cercava la morte. Cercava di fuggire dalla morte e dalla vita. Cercava la sicurezza: la fine della paura… la paura della morte.
— Ma c’è… c’è una via. C’è una via al di là della morte. Il ritorno alla vita. È questo… ciò che cercano. Lepre e Sopli, coloro che erano incantatori. È quello che noi cerchiamo. Tu… tu più di ogni altro devi sapere… devi conoscere quella via…
La forte mano del mago era ancora posata sulla sua. — Non la conosco — disse Sparviero. — Sì, so ciò che credono di cercare. Ma so che è una menzogna. Ascoltami, Arren. Tu morirai. Non vivrai in eterno. Nessun uomo, nessuna cosa vivrà in eterno. Non c’è nulla d’immortale. Ma solo a noi è dato sapere che dobbiamo morire. Ed è un grande dono: il dono dell’io. Perché noi abbiamo solo ciò che sappiamo di dover perdere, ciò che siamo disposti a perdere… Quell’io che è il nostro tormento, e il nostro tesoro e la nostra umanità, non dura. Cambia; sparisce, come un’onda sul mare. Vorresti che il mare diventasse immobile, che le maree cessassero, solo per salvare un’onda, per salvare te stesso? Vorresti rinunciare all’abilità delle tue mani, e alla passione del tuo cuore, e alla luce dell’aurora e del tramonto, per comprare la sicurezza per te stesso, la sicurezza eterna? È quanto cercano di fare a Wathort e a Lorbanery e altrove. Questo è il messaggio udito da coloro che sanno udire: negando la vita puoi negare la morte e vivere per sempre! E io non odo questo messaggio, Arren, perché non voglio udirlo. Non ascolterò il consiglio della disperazione. Sono sordo; sono cieco. Tu sei la mia guida. Tu, con la tua innocenza e il tuo coraggio, con la tua mancanza di sapienza e la tua lealtà, tu sei la mia guida… il bambino che invio davanti a me nell’oscurità. Ciò che io seguo è la tua paura, la tua sofferenza. Tu mi hai giudicato duro nei tuoi confronti, ma non hai mai saputo fino a che punto lo sono stato. Uso il tuo amore come un uomo che brucia una candela, e la consuma, per illuminarsi il cammino. E dobbiamo andare avanti. Dobbiamo andare avanti. Dobbiamo arrivare fino in fondo. Dobbiamo giungere al luogo dove il mare s’inaridisce e s’inaridisce la gioia, il luogo verso il quale ti attrae il tuo terrore mortale.
— Dov’è, mio signore?
— Non lo so.
— Non posso condurti là. Ma verrò con te,
Lo sguardo del mago, fisso su di lui, era cupo, insondabile.
— Se dovessi deluderti di nuovo, tradirti…
— Mi fiderò di te, figlio di Morred.
Poi tacquero entrambi.
Sopra di loro, gli alti idoli scolpiti ondeggiavano lievemente contro l’azzurro cielo meridionale: corpi di delfini, ali di gabbiani ripiegate, volti umani che avevano occhi spalancati, formati da conchìglie.
Sparviero si alzò, irrigidito perché non era ancora guarito dalla ferita. — Sono stanco di starmene seduto — disse. — Ingrasserò, nell’ozio. — Cominciò a camminare avanti e indietro, sulla zattera, e Arren l’accompagnò. Parlarono un poco mentre camminavano; Arren disse a Sparviero come trascorreva le giornate, e chi erano i suoi amici tra il popolo delle zattere. L’inquietudine di Sparviero era più grande della sua forza, che ben presto l’abbandonò. Si fermò accanto a una ragazza che intesseva il nilgu al telaio, dietro la Casa dei Grandi, e la pregò di cercare il capo; poi ritornò al suo riparo. Poco dopo sopraggiunse il capo del popolo delle zattere, salutandolo con una cortesia che il mago ricambiò; tutti e tre si sedettero sui tappeti di pelle di foca maculata.
— Ho pensato — incominciò il capo, lentamente e in tono solenne, — alle cose che mi hai detto. Agli uomini che credono di ritornare dalla morte nei loro corpi, e che cercando di far questo dimenticano la venerazione dovuta agli dèi e trascurano la propria persona e impazziscono. È un grande male e una grande follia. Ma ho anche pensato: questo ci riguarda? Noi non abbiamo nulla da spartire con gli altri uomini, le loro isole e i loro costumi, le loro azioni e distruzioni. Noi viviamo sul mare e le nostre vite appartengono al mare. Noi non speriamo di salvarle, non cerchiamo di perderle. Qui la follia non giunge. Noi non andiamo alla terraferma, e la gente della terraferma non viene da noi. Quando ero giovane, talvolta parlavamo con uomini che venivano con le barche alla Lunga Duna, quando noi vi andavamo a tagliare i tronchi per le zattere e per costruire i ripari per l’inverno. Spesso vedevamo le vele che provenivano da Ohol e Welway [così lui chiamava Obehol e Wellogy], seguendo le balene grige in autunno. Spesso seguivano le nostre zattere da lontano, perché noi conosciamo le strade e i luoghi di raduno dei Grandi, nel mare. Ma io non ho mai visto altra gente della terraferma, e adesso non vengono più. Forse sono tutti impazziti e hanno preso a combattersi tra loro. Due anni fa, sulla Lunga Duna, guardando a nord verso Welway, abbiamo visto per tre giorni il fumo di un grande incendio. E se anche è così, che importanza ha per noi? Noi siamo i Figli del Mare Aperto. Noi andiamo per le vie del mare.
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