Quando si sdraiò per dormire si girò verso sud: e là, alta nel cielo sopra il mare vuoto, ardeva la stella Gobardon. Più sotto c’erano le due che formavano un triangolo, e sotto queste ne erano sorte tre, in linea retta, formando un triangolo ancora più grande. Poi, liberandosi dalle liquide pianure nere e argentee, ne seguirono altre due, con l’avanzare della notte; erano gialle come Gobardon, sebbene più fioche, e inclinate da destra verso sinistra alla base del triangolo. Dunque erano otto delle nove stelle che, si diceva, formavano la figura di un uomo, o la runa hardese Agnen. Agli occhi di Arren quella costellazione non sembrava affatto un uomo, a meno che fosse stranamente distorto, come avviene sempre nelle figure formate dalle stelle; ma la runa era nitida, con l’uncino e il tratto trasversale, e per completarla mancava solo l’ultimo tratto, la base, la stella che non era ancora sorta.
E mentre la cercava con lo sguardo, attendendola, Arren si addormentò.
Quando si svegliò, all’alba, la Vistacuta era stata spinta dalla deriva ancora più lontano da Obehol. La nebbia nascondeva le spiagge, rivelando solo le vette delle montagne, e si diradava in una foschia sopra le acque violette del sud, affievolendo le ultime stelle.
Arren guardò il suo compagno. Sparviero aveva il respiro irregolare, come avviene quando la sofferenza serpeggia sotto la superficie del sonno senza infrangerla. Il suo volto era vecchio e segnato, nella fredda luce senza ombre. Mentre lo guardava, Arren vide un uomo al quale non restavano più potere né magia né forza, e neppure la giovinezza: più nulla. Non aveva salvato Sopli, non aveva distolto da sé la lancia. Li aveva portati fra i pericoli e non li aveva salvati. Adesso Sopli era morto, e Sparviero era moribondo, e Arren sarebbe morto: tutto a causa di quell’uomo, e invano, per niente.
Perciò Arren lo guardava con i limpidi occhi della disperazione e non vedeva nulla.
Non rammentava più la fontana sotto l’albero di rowan, o la bianca luce incantata nella nebbia, a bordo della nave dei razziatori di schiavi, o le piantagioni esauste della Casa dei tintori. Né si ridestava in lui l’orgoglio o l’ostinazione della volontà. Guardò l’alba ascendere sul mare tranquillo, dove le onde lunghe e basse correvano, colorate di pallido ametista, ed era tutto come un sogno, sbiadito, senza la presa e il vigore della realtà. E nel profondo del sogno e del mare c’era il nulla… una lacuna, un vuoto. La profondità non c’era.
La barca si muoveva lenta, irregolarmente, seguendo l’umore capriccioso del vento. Più indietro, i picchi di Obehol rimpicciolirono, neri contro il sole che sorgeva; e da quella direzione veniva il vento, che portava la barca lontano dall’isola, lontano dal mondo, fuori, sul mare aperto.
Verso la metà di quel giorno, Sparviero si mosse e chiese acqua. Quando ebbe bevuto, domandò: — Dove siamo diretti? — Perché la vela era tesa sopra di lui, e la barca si tuffava come una rondine sulle onde lunghe.
— Verso ovest o nordovest.
— Ho freddo — disse Sparviero. Il sole sfolgorava, e riempiva di calore la barca.
Arren non disse nulla.
— Cerca di mantenere la rotta verso ovest. Wellogy, a ovest di Obehol. Sbarca là. Abbiamo bisogno di acqua.
Il ragazzo guardò avanti, sul mare deserto.
— Cosa c’è, Arren?
Lui non disse nulla.
Sparviero cercò di levarsi a sedere, non vi riuscì, e allora tentò di raggiungere il bastone che stava accanto alla cassa degli attrezzi; ma era fuori dalla sua portata, e quando riprovò a parlare, le parole si arrestarono sulle sue labbra secche. Il sangue sgorgò di nuovo sotto la fasciatura incrostata, formando un esile filamento cremisi sulla pelle scura del suo petto. Lui tirò un brusco respiro e chiuse gli occhi.
Arren lo scrutò, ma apaticamente, e non a lungo. Andò a prua e tornò ad accovacciarsi, guardando avanti. Aveva la bocca inaridita. Adesso il vento dell’est spirava costante sul mare aperto, ed era secco come il vento del deserto. Nel barile c’erano solo due o tre pinte d’acqua; e Arren aveva deciso di serbarle per Sparviero, non per sé; non aveva mai pensato di bere quell’acqua. Aveva calato le lenze perché da quando avevano lasciato Lorbanery aveva imparato che il pesce crudo placa anche la sete, non soltanto la fame; ma non abboccava mai niente. Non aveva importanza. La barca continuava a procedere sul deserto d’acqua. Lentamente, anche il sole si muoveva da est a ovest, e alla fine vinceva la gara di tutta l’ampiezza del cielo.
A un certo momento Arren credette di scorgere una vetta azzurra, a sud, che poteva essere una terra o una nube; da ore la barca correva un po’ verso nordovest. Non cercò di bordeggiare e di virare: lasciò che andasse dove voleva. Quella terra poteva essere reale e poteva non esserlo: non importava. Per lui tutto l’immenso e fiammeggiante fulgore del vento e della luce e dell’oceano era offuscato e falso.
Venne l’oscurità, e poi di nuovo la luce, e poi l’oscurità, e la luce, come rulli di tamburo sul tesissimo telone del cielo.
Arren immerse la mano nell’acqua, sporgendosi dalla fiancata della barca. Per un istante la vide, vividamente: la sua mano verdepallida sotto l’acqua viva. Si piegò e succhiò le gocce dalle dita. Erano amare, e gli bruciavano dolorosamente le labbra, ma lui lo fece di nuovo. Poi fu preso dalla nausea, e si accosciò vomitando: ma era solo un po’ di bile che gli bruciava la gola. Non aveva più acqua da dare a Sparviero, e aveva paura di avvicinarglisi. Si sdraiò, rabbrividendo nonostante il caldo. Era tutto silente, asciutto e luminoso: terribilmente luminoso. Si riparò gli occhi dalla luce.
Stavano sulla barca, ed erano tre, esili come steli e angolosi, con gli occhi grandi, come strani aironi scuri, o gru. Le loro voci erano sottili, come quelle degli uccelli. Lui non li capiva. Uno s’inginocchiò sopra di lui, reggendo sul braccio una vescica scura, e l’inclinò verso la sua bocca: era acqua. Arren bevve avidamente, tossì perché un po’ gliene era andata di traverso, e bevve ancora fino a vuotare il recipiente. Poi si guardò intorno e si alzò, faticosamente, chiedendo: — Dov’è, dov’è? — perché con lui, a bordo della Vistacuta , c’erano soltanto quei tre uomini strani e sottili.
E quelli lo guardarono senza comprendere.
— L’altro uomo — gracchiò Arren, e la gola dolorante e le labbra incrostate stentavano a formare le parole. — Il mio amico…
Uno dei tre comprese la sua angoscia, se non le sue parole, e posandogli sul braccio una mano sottile tese l’altra a indicare. — Là — disse, rassicurante.
Arren guardò. E vide, a nord della barca, tante zattere, alcune radunate vicino e altre sfilate lontano, attraverso il mare: tante zattere che sembravano foglie d’autunno in uno stagno. Ciascuna, bassa sull’acqua, aveva al centro una o due cabine o capanne, e molte avevano anche alberi montati. Galleggiavano come foglie, sollevandosi e riabbassandosi lievemente quando le immense onde lunghe dell’oceano occidentale passavano sotto di loro. In mezzo, le fasce d’acqua brillavano come argento; e in cielo torreggiavano grandi nembi violetti e dorati, carichi di pioggia, che oscuravano l’ovest.
— Là — disse l’uomo, additando una grande zattera accanto alla Vistacuta.
— Vivo?
Tutti lo guardarono, e finalmente uno comprese. — Vivo. È vivo. — Allora Arren cominciò a piangere, a singulti secchi, e uno degli uomini gli prese il polso nella mano sottile e forte e lo trascinò dalla Vistacuta alla zattera cui era legata la barca. La zattera era così grande e leggera che non s’inclinò neppure lievemente sotto il loro peso. L’uomo guidò Arren avanti, mentre uno degli altri protendeva un pesante grappino munito di un dente ricurvo di squalo-balena e tirava più vicina un’altra zattera per poter superare il varco. L’uomo condusse Arren alla cabina, che era aperta su un lato e chiusa sugli altri tre da pannelli intrecciati. — Sdraiati — disse. E Arren non ricordò altro.
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