Ursula Le Guin - La spiaggia più lontana

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La pace che sembrava tornata nel mondo fatato di Earthsea dopo la riconquista da parte di Ged della metà mancante dell’anello magico di Erreth-Akbe nei labirinti oscuri delle tombe di Atuan, è di nuovo in pericolo: Arren, il giovane principe di Enlad, la più antica casata di Earthsea, viene personalmente all’isola di Roke per avvertire l’Arcimago Ged, ormai maturo e famoso in tutto il mondo, che la magia va scomparendo in tutte le terre del Nord. Nessuno sa il perché, ma gli antichi incantesimi non funzionano più ed i maghi vanno perdendo la conoscenza della “lingua antica” che era alla base della loro forza.
Così, per scoprire da dove provenga questa minaccia che allarga con tanta rapidità la sua sfera d’influenza, Ged ed Arren, l’uomo saggio ed il fanciullo inesperto, partono per un viaggio che sarà una vera e propria odissea: un lungo vagabondare attraverso le isolette e le genti di Earthsea che li porterà ad affrontare pericoli di tutti i generi (briganti, mercanti di schiavi, traversate avventurose in mari burrascosi), fino a giungere all’ultima spiaggia, a Selidor, l’isola all’estremità del mondo, dove risiedono i draghi, ed ancora più oltre, in un luogo desolato da cui nessuno fa mai ritorno.
La spiaggia più lontana conclude il ciclo di Ged, un ciclo di rara bellezza letteraria e di grande coerenza interna, che accoppia ad una poetica narrazione di eroiche gesta, un’allegorica riflessione sull’equilibrio cosmico e sull’essenza della vita.

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— Ora — disse ad Arren e alla barca. Arren diede tre grandi colpi di remi, e la Vistacuta salì leggera sulla sabbia. Sparviero balzò fuori per spingere avanti la barca, sull’ultimo slancio delle onde. Quando tese le mani per spingere, incespicò e quasi cadde, afferrandosi alla prua. Con uno sforzo poderoso trascinò la barca indietro, nell’acqua, nel deflusso dell’onda, e scavalcò la frisata mentre la Vistacuta stava sospesa fra mare e spiaggia. — Rema! — ansimò, e si acquattò carponi, sgocciolante d’acqua, cercando di riprendere fiato. Stringeva una lancia, una lancia dalla punta di bronzo, lunga mezzo braccio. Dove l’aveva presa? Un’altra lancia apparve mentre Arren indugiava frastornato sui remi; colpì di taglio un sedile, scheggiando il legno, e rimbalzò. Sulle basse alture sopra la spiaggia, sotto gli alberi, c’erano figure che si muovevano, correvano e si chinavano. Nell’aria c’erano lievi sibili ronzanti. All’improvviso Arren ritrasse la testa tra le spalle, piegò la schiena e remò a bracciate poderose: due per uscire dalle acque basse, tre per far virare la barca, e via.

Sopli, che stava a prua, dietro le spalle di Arren, cominciò a gridare. Il ragazzo si sentì afferrare bruscamente le braccia, e i remi uscirono fulminei dall’acqua. Uno lo colpì alla bocca dello stomaco, e per un attimo lui restò accecato, ansimante. — Torna indietro! Torna indietro! — gridava Sopli. La barca balzò all’improvviso nell’acqua, e ondeggiò. Arren si voltò, furioso, appena ebbe riafferrato i remi. Sopli non era a bordo.

Intorno a loro, la profonda acqua della baia ondeggiava e scintillava abbagliante nel sole.

Stordito, Arren guardò di nuovo indietro, poi guardò Sparviero, accovacciato a poppa. — Là — disse il mago, tendendo il braccio: ma non c’era nulla, solo il mare e i barbagli del sole. Una lancia cadde a poche braccia dalla barca, entrò nell’acqua senza far rumore, e svanì. Arren remò, dieci o dodici bracciate energiche, poi si fermò per guardare di nuovo Sparviero.

Aveva il braccio sinistro e le mani insanguinati, e si teneva contro la spalla un pezzo di tela da vela. La lancia dalla punta di bronzo giaceva sul fondo della barca. Non era esatto dire che lui la tenesse in mano, quando Arren l’aveva vista per la prima volta: gli si era piantata nell’incavo della spalla. Sparviero scrutava l’acqua tra loro e la bianca spiaggia, dove alcune figure minuscole saltavano e ondeggiavano nel confuso bagliore del caldo. Infine disse: — Va’.

— Sopli…

— Non è riemerso.

— È annegato? — chiese Arren, incredulo.

Sparviero annuì.

Arren continuò a remare fino a quando la spiaggia fu soltanto una linea bianca sotto le foreste e le grandi vette verdi. Sparviero sedeva accanto al timone, premendosi il tampone di tela contro la spalla ma senza curarsi della ferita.

— È stato colpito da una lancia?

— Si è buttato.

— Ma… non sapeva nuotare. Aveva paura dell’acqua.

— Sì. Una paura mortale. Voleva… voleva andare a terra.

— Perché ci hanno attaccati? Chi sono?

— Devono averci creduto nemici. Ti dispiace… darmi una mano, un momento? — Arren vide che la tela premuta contro la spalla era intrisa di sangue.

La lancia aveva colpito tra la giuntura della spalla e la clavicola, lacerando una delle grandi vene, e la ferita sanguinava abbondantemente. Seguendo le istruzioni di Sparviero, Arren strappò a strisce una camicia di lino e fasciò la ferita. Sparviero gli chiese la lancia: quando Arren gliela posò sulle ginocchia, mise la mano destra sulla punta, lunga e sottile come una foglia di salice, di bronzo rozzamente martellato; sembrò sul punto di parlare, ma dopo un attimo scosse la testa. — Non ho forza per un incantesimo — disse. — Più tardi. Guarirà. Puoi portarci fuori dalla baia?

In silenzio, il ragazzo ritornò ai remi. Piegò la schiena con impegno, e ben presto, poiché in quel suo corpo agile c’era una grande forza, portò la Vistacuta fuori dalla baia a mezzaluna, nel mare aperto. Regnava la lunga bonaccia meridiana, e la vela pendeva inerte. Il sole sfolgorava attraverso un velo di foschia, e le verdi vette sembravano tremolare e pulsare nel calore. Sparviero si era sdraiato sul fondo della barca, con la testa appoggiata al sedile, accanto al timone; era immobile, con le labbra e le palpebre socchiuse. Arren preferiva non guardarlo in faccia, e fissava oltre la poppa della barca. La foschia tremolava sull’acqua, come se veli di ragnatela s’intessessero nel cielo. Gli tremavano le braccia per la fatica, ma continuava a remare.

— Dove ci stai portando? — chiese Sparviero con voce rauca, sollevandosi un po’. Voltatosi, Arren vide che la baia incurvava di nuovo le verdi braccia intorno alla barca, e la bianca linea della spiaggia stava davanti a loro, e le montagne si ergevano nell’aria. Aveva girato la barca senza accorgersene.

— Non posso più remare — disse, ritirando i remi, e andò ad accovacciarsi a prua. Continuava ad avere la sensazione che Sopli fosse dietro di lui, a bordo, accanto all’albero. Avevano vissuto insieme molti giorni, e la sua morte era stata troppo improvvisa e immotivata perché lui potesse comprenderla. Tutto era incomprensibile.

La barca si dondolava sull’acqua, con la vela afflosciata. La marea, che incominciava a entrare nella baia, girò lentamente la Vistacuta di traverso rispetto alla corrente e la spinse avanti a piccoli colpetti verso la lontana linea bianca della spiaggia.

Vistacuta - disse il mago in tono carezzevole, e aggiunse una o due parole nella Vecchia Lingua; e dolcemente la barca ondeggiò e girò la prua verso il mare, scivolando sull’acqua sfolgorante, lontano dalle braccia della baia.

Ma altrettanto dolcemente, dopo meno di un’ora, smise di avanzare, e la vela si afflosciò di nuovo. Arren si voltò indietro e vide che il suo compagno era sdraiato come prima; ma la testa era leggermente ripiegata all’indietro, e gli occhi erano chiusi.

Fino a quel momento Arren aveva provato un orrore pesante e morboso che cresceva e gli impediva di agire, come se avvolgesse il suo corpo e la sua mente in fili sottilissimi. Non trovava il coraggio di combattere contro quella paura: c’era solo una specie di cupo risentimento contro la sua sorte.

Non doveva lasciare che la barca andasse alla deriva verso le spiagge rocciose di un’isola i cui abitanti attaccavano i forestieri: questo era chiaro, nella sua mente, ma non significava molto. Cosa doveva fare, invece? Remare fino a Roke? Era perduto, irreparabilmente perduto senza speranza, nell’immensità dello stretto. Non avrebbe mai potuto riportare la barca verso una terra amichevole, con un viaggio di settimane. Poteva riuscirci solo con la guida del mago, e Sparviero era stato ferito e immobilizzato, all’improvviso e insensatamente, così com’era morto Sopli. Il suo volto era mutato, giallastro e inerte: forse stava morendo. Arren pensò che doveva portarlo sotto il tendone per ripararlo dal sole e dargli un po’ d’acqua: chi ha perso sangue deve bere. Ma da giorni era a corto d’acqua: il barile era quasi vuoto. Che importanza aveva? Tutto era inutile. La buona sorte li aveva abbandonati.

Le ore trascorsero, e il sole continuava a picchiare, e il calore grigiastro avviluppava Arren. E lui stava seduto immobile.

Un alito di frescura gli passò sulla fronte. Alzò la testa. Era sera: il sole era tramontato, e l’occaso era rosso-cupo. La Vistacuta si muoveva lentamente, spinta da una lieve brezza che veniva dall’est aggirando le scoscese coste boscose di Obehol.

Arren si mosse e si prese cura del suo compagno, sistemando un pagliericcio sotto il tendone e facendogli bere un po’ d’acqua. Fece tutte queste cose in fretta, distogliendo gli occhi dalla fasciatura, che doveva essere cambiata perché la ferita non aveva smesso completamente di sanguinare. Sparviero, illanguidito dalla debolezza, non parlava; mentre beveva avidamente chiuse gli occhi e scivolò di nuovo nel sonno, che era la sua sete più grande. Giaceva in silenzio; e quando, nell’oscurità, la brezza cadde, non venne un vento magico a sostituirla, e la barca si dondolò di nuovo pigramente sulle onde lunghe. Ma adesso le montagne che incombevano sulla destra spiccavano nere contro un cielo fulgido di stelle, e Arren restò a lungo a guardarle. I contorni delle costellazioni gli sembravano familiari, come se li avesse già visti, come se li avesse sempre conosciuti.

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