Ursula Le Guin - La spiaggia più lontana

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La pace che sembrava tornata nel mondo fatato di Earthsea dopo la riconquista da parte di Ged della metà mancante dell’anello magico di Erreth-Akbe nei labirinti oscuri delle tombe di Atuan, è di nuovo in pericolo: Arren, il giovane principe di Enlad, la più antica casata di Earthsea, viene personalmente all’isola di Roke per avvertire l’Arcimago Ged, ormai maturo e famoso in tutto il mondo, che la magia va scomparendo in tutte le terre del Nord. Nessuno sa il perché, ma gli antichi incantesimi non funzionano più ed i maghi vanno perdendo la conoscenza della “lingua antica” che era alla base della loro forza.
Così, per scoprire da dove provenga questa minaccia che allarga con tanta rapidità la sua sfera d’influenza, Ged ed Arren, l’uomo saggio ed il fanciullo inesperto, partono per un viaggio che sarà una vera e propria odissea: un lungo vagabondare attraverso le isolette e le genti di Earthsea che li porterà ad affrontare pericoli di tutti i generi (briganti, mercanti di schiavi, traversate avventurose in mari burrascosi), fino a giungere all’ultima spiaggia, a Selidor, l’isola all’estremità del mondo, dove risiedono i draghi, ed ancora più oltre, in un luogo desolato da cui nessuno fa mai ritorno.
La spiaggia più lontana conclude il ciclo di Ged, un ciclo di rara bellezza letteraria e di grande coerenza interna, che accoppia ad una poetica narrazione di eroiche gesta, un’allegorica riflessione sull’equilibrio cosmico e sull’essenza della vita.

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— Andiamo alla barca?

— Sì. — Posò due pezzi d’argento sul davanzale della finestra, per pagare il vitto e l’alloggio, e si caricò sulle spalle il leggero involto dei loro indumenti. Arren era stanco e insonnolito, ma girò lo sguardo sulla stanza squallida e soffocante, che adesso era tutta un fremito di pipistrelli inquieti, fra le travi; pensò alla notte che vi aveva trascorso e fu ben lieto di seguire Sparviero. E mentre percorrevano l’unica e buia strada di Sosara, pensò che andandosene adesso avrebbe lasciato lì il pazzo. Ma quando giunsero al porto, Sopli li stava aspettando sul pontile.

— Eccoti qui — disse il mago. — Sali a bordo, se vuoi venire con noi.

Senza pronunciare una parola, Sopli si calò nella barca e si rannicchiò accanto all’albero, come un grosso cane irsuto. Arren si ribellò. — Mio signore! — disse. Sparviero si voltò: si guardarono, faccia a faccia, sul pontile.

— Su quest’isola sono tutti pazzi, ma credevo che tu non lo fossi. Perché lo porti con noi?

— Come guida.

— Una guida… verso altre pazzie? Verso la morte per annegamento, o per una coltellata nella schiena?

— Verso la morte, ma non so per quale strada.

Arren aveva parlato accalorandosi, e sebbene Sparviero rispondesse quietamente, nella sua voce c’era una nota di risentimento. Non era abituato a simili contestazioni. Ma sempre, da quando Arren aveva cercato di difenderlo dal pazzo quel pomeriggio, per la strada, e si era accorto che la sua protezione era vana e inutile, aveva provato un senso di amarezza, e tutto lo slancio di devozione che aveva sentito al mattino era rovinato e sprecato. Non era in grado di proteggere Sparviero: non gli era consentito prendere decisioni; non poteva neppure comprendere il carattere della loro ricerca, o non gli era permesso. Veniva semplicemente trascinato, inutile come un bambino. Ma non era un bambino.

— Non vorrei litigare con te, mio signore — disse, con tutta la possibile freddezza. — Ma questo… questo è irragionevole.

— È irragionevole. Noi stiamo andando dove la ragione non può condurci. Vuoi venire o non vuoi venire?

Gli occhi di Arren si riempirono di lacrime di rabbia. — Ho detto che sarei venuto con te e che ti avrei servito. Non verrò meno alla mia parola.

— Bene — disse cupamente il mago, e fece l’atto di voltarsi. Poi si girò di nuovo verso Arren. — Ho bisogno di te, e tu hai bisogno di me. Perché, ti dico ora, credo che la strada che ci accingiamo a percorrere sia la tua, e dovrai seguirla: non per ubbidienza o devozione nei miei confronti, ma perché era la tua prima ancora che tu mi vedessi, prima ancora che mettessi piede su Roke, prima che salpassi da Enlad. Non puoi voltarle le spalle.

La sua voce non si era addolcita. Arren gli rispose, altrettanto torvo: — E come potrei voltarle le spalle, se non ho una barca e sono all’orlo del mondo?

— Questo è l’orlo del mondo? No, quello è molto più lontano. Forse ci arriveremo.

Arren annuì e balzò nella barca. Sparviero sciolse l’ormeggio e chiamò nella vela un vento leggero. Quando si furono allontanati dai deserti moli di Lorbanery, l’aria prese a spirare fresca e pulita dal buio del nord e la luna eruppe argentea dal mare lucente davanti a loro e veleggiò sulla loro sinistra quando virarono verso sud per costeggiare l’isola.

IL PAZZO

Il pazzo, il Tintore di Lorbanery, stava raggomitolato contro l’albero maestro, con le braccia strette intorno alle ginocchia e la testa china. La massa dei capelli irsuti sembrava nera, nel chiaro di luna. Sparviero si era avvolto in una coperta e si era addormentato a poppa. Nessuno dei due si muoveva. Arren stava seduto a prua: aveva giurato a se stesso di vegliare durante l’intera notte. Se il mago aveva deciso di credere che il passeggero demente non avrebbe aggredito né lui né Arren nel corso della notte, era liberissimo di farlo; ma Arren avrebbe continuato a pensare come voleva, e si sarebbe assunto le proprie responsabilità.

Ma la notte fu lunghissima e molto tranquilla. La luce della luna scendeva immutabile. Rannicchiato accanto all’albero, Sopli russava, con un suono lungo e sommesso. La barca procedeva dolcemente; dolcemente, Arren scivolò nel sonno. Si svegliò con un sussulto, dopo un po’, e vide che la luna era di poco più alta; rinunciò alla decisione di montare di guardia, si assestò più comodamente, e si addormentò.

Sognò ancora, come sembrava che sognasse sempre durante quel viaggio, e all’inizio i sogni furono frammentari ma stranamente dolci e rassicuranti. Al posto dell’albero maestro della Vistacuta cresceva una grande pianta, con i rami arcuati e carichi di foglie; c’erano cigni che guidavano la barca, volando sulle forti ali; lontano, più avanti, sul mare verde come berillo, splendeva una città dalle torri bianche. Poi si trovò in una di quelle torri: saliva la scala a spirale, correndo a passi leggeri e impazienti. Quelle scene cambiavano e ritornavano e portavano ad altre, che passavano senza lasciare tracce; ma all’improvviso Arren fu nel cupo e terrificante crepuscolo della brughiera, e l’orrore crebbe dentro di lui fino a impedirgli di respirare. Ma lui avanzava, perché doveva avanzare. Dopo molto tempo s’accorse che lì avanzare significava procedere in cerchio e ritornare sulle proprie tracce. Eppure doveva andarsene, doveva andare via. L’impulso diventò più incalzante. Si mise a correre. Via via che correva, i cerchi si restringevano e il terreno diventava inclinato. Nell’oscurità sempre più fitta Arren correva sempre più veloce, intorno al ciglio interno di un abisso, un gorgo enorme che sprofondava nella tenebra: e quando se ne accorse, scivolò e cadde.

— Cosa ti succede, Arren?

Sparviero gli aveva parlato dalla poppa della barca. La grigia alba teneva immobili il mare e il cielo.

— Niente.

— L’incubo?

— Niente.

Arren aveva freddo, e il suo braccio destro era intorpidito perché gli stava sdraiato sopra. Chiuse di nuovo gli occhi, di fronte alla luce che diventava più intensa, e pensò: Lui allude a questo e a quello, ma non mi dice mai chiaramente dove stiamo andando o perché, e neppure perché io devo andarci. E adesso si trascina dietro questo pazzo. Ma chi è più demente, il pazzo oppure io che vado con lui? Forse loro due possono intendersi: adesso i maghi sono pazzi, ha detto Sopli. Io potrei essere di nuovo in patria, a casa mia, nel palazzo di Berila, nella mia stanza dalle pareti scolpite, con i tappeti rossi sul pavimento e il fuoco acceso nel camino, e mi sveglierei per andare insieme a mio padre a caccia con i falchi. Perché sono venuto con lui? Perché mi ha condotto con sé? Perché è la mia strada, dice: ma questi sono discorsi da mago, che fanno sembrare le cose più grandi con grandi parole. Ma il significato delle parole è sempre altrove. Se ho una strada da seguire, è quella che conduce alla mia patria, e non a vagare senza ragione attraverso gli stretti. Ho doveri da compiere, in patria, e li sto evitando. Se lui pensa veramente che c’è all’opera un nemico della magia, perché è partito solo, con me? Avrebbe potuto condurre un altro mago che l’aiutasse… o cento maghi. Avrebbe potuto portare un esercito di guerrieri, un’intera flotta. È così che si deve affrontare un grande pericolo, mandando un vecchio e un ragazzo a bordo di una barca? È una follia. Anche lui è pazzo: è come ha detto, cerca la morte. Cerca la morte, e vuole portarmi con sé. Ma io non sono pazzo e non sono vecchio; non voglio morire; non voglio andare con lui.

Si sollevò, puntellandosi sul gomito, e guardò avanti. La luna, che era sorta davanti a loro quando avevano lasciato la baia di Sosara, era di nuovo dinanzi a loro, e stava tramontando. Dietro, a oriente, il giorno spuntava pallido. Non c’erano nubi, ma una lieve foschia malsana. Poi, il sole divenne caldo ma rimase velato, privo di splendore.

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