Ursula Le Guin - La spiaggia più lontana

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La pace che sembrava tornata nel mondo fatato di Earthsea dopo la riconquista da parte di Ged della metà mancante dell’anello magico di Erreth-Akbe nei labirinti oscuri delle tombe di Atuan, è di nuovo in pericolo: Arren, il giovane principe di Enlad, la più antica casata di Earthsea, viene personalmente all’isola di Roke per avvertire l’Arcimago Ged, ormai maturo e famoso in tutto il mondo, che la magia va scomparendo in tutte le terre del Nord. Nessuno sa il perché, ma gli antichi incantesimi non funzionano più ed i maghi vanno perdendo la conoscenza della “lingua antica” che era alla base della loro forza.
Così, per scoprire da dove provenga questa minaccia che allarga con tanta rapidità la sua sfera d’influenza, Ged ed Arren, l’uomo saggio ed il fanciullo inesperto, partono per un viaggio che sarà una vera e propria odissea: un lungo vagabondare attraverso le isolette e le genti di Earthsea che li porterà ad affrontare pericoli di tutti i generi (briganti, mercanti di schiavi, traversate avventurose in mari burrascosi), fino a giungere all’ultima spiaggia, a Selidor, l’isola all’estremità del mondo, dove risiedono i draghi, ed ancora più oltre, in un luogo desolato da cui nessuno fa mai ritorno.
La spiaggia più lontana conclude il ciclo di Ged, un ciclo di rara bellezza letteraria e di grande coerenza interna, che accoppia ad una poetica narrazione di eroiche gesta, un’allegorica riflessione sull’equilibrio cosmico e sull’essenza della vita.

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Sparviero non rispose. I suoi occhi fissavano di nuovo quelli della donna; e Arren, che si teneva un po’ in disparte, osservava inquieto.

All’improvviso, lei tremò e disse, in un bisbiglio: — Io ti conosco…

— Sì. Ogni simile conosce il suo simile, sorella.

Stranamente, la donna si scostò dal mago, atterrita, come se volesse sfuggirgli, e nello stesso tempo sembrava ansiosa di accostarsi, come per inginocchiarsi ai suoi piedi.

Sparviero le prese la mano e la trattenne. — Vorresti riavere il tuo potere, l’arte, i nomi? Io posso ridarteli.

— Tu sei il Grande Uomo — mormorò lei. — Tu sei il Re delle Ombre, il Signore del Luogo Tenebroso…

— No. Non sono un re. Sono un uomo, un mortale, tuo fratello e tuo simile.

— Ma non morirai?

— Morirò.

— Ma ritornerai e vivrai in eterno.

— No. Né io né nessun altro.

— Allora tu non sei… non sei il Grande della tenebra — disse la donna, aggrottando la fronte e guardandolo un po’ di sottecchi, con minore paura. — Tuttavia, tu sei un Grande. Ce ne sono due? Qual è il tuo nome?

Il severo volto del mago si addolcì un momento. — Non posso dirtelo — rispose gentilmente.

— Ti dirò un segreto — fece la donna. Adesso stava più eretta, di fronte a lui, e nella sua voce e nel suo portamento c’era un’eco della sua antica dignità. — Non voglio vivere e vivere e vivere per sempre. Preferirei riavere i nomi delle cose. Ma sono tutti svaniti. I nomi non hanno più importanza. Vuoi conoscere il mio nome? — I suoi occhi si riempirono di luce; strinse i pugni e si protese verso Sparviero, mormorando: — Il mio nome e Akaren. — Poi gridò. — Akaren! Akaren! Il mio nome è Akaren! Adesso tutti conoscono il mio nome segreto, il mio vero nome, e non ci sono segreti, e non c’è la verità, e non c’è la morte… la morte… la morte! — Gridò quella parola singhiozzando, e la saliva le volò dalle labbra.

— Taci, Akaren!

La donna tacque. Le lacrime le scorrevano sul volto sudicio, invaso dalle ciocche spettinate dei capelli grigi.

Sparviero prese tra le mani quel volto grinzoso e striato dal pianto e delicatamente, teneramente, la baciò sugli occhi. La donna restò immobile, a occhi chiusi. Poi, accostatele le labbra all’orecchio, lui pronunciò qualche parola nella Vecchia Lingua, la baciò di nuovo, e la lasciò andare.

La donna aprì i limpidi occhi e lo guardò per qualche istante con un’espressione pensierosa e stupita. È così che un neonato guarda la madre e che una madre guarda il figlio. Si girò lentamente, si diresse alla porta, entrò, e la chiuse dietro di sé: sempre in silenzio, e sempre con quell’espressione di stupore.

In silenzio, il mago si voltò e s’incamminò per raggiungere la strada. Arren lo seguì. Non osò fargli domande. Dopo un po’, il mago si fermò, lì nella piantagione devastata, e disse: — Le ho preso il suo nome e gliene ho dato uno nuovo. E così, in un certo senso, è una rinascita. Non c’era altro aiuto, altra speranza che potessi darle.

La sua voce era forzata, soffocata.

— Era una donna del potere — continuò. — Non una semplice strega o una fattucchiera, ma una donna dotata di arte e di abilità, che usava le sue capacità per creare il bello: una donna fiera e onorevole. Quella era la sua vita. Ed è tutto sprecato. — Si voltò, bruscamente, si avviò tra i filari della piantagione, e si fermò accanto a un albero, voltando le spalle ad Arren.

Arren l’attese nella luce afosa, screziata dalle fronde. Sapeva che Sparviero si vergognava di opprimerlo con le sue emozioni: e in verità lui non poteva dire nulla o fare nulla. Ma il suo cuore volò verso il suo compagno, non più con quell’ardente adorazione iniziale e romantica ma con dolore, come se si fosse creato tra loro un legame infrangibile. Perché in quell’amore che provava adesso c’era compassione; e senza quella compassione l’amore non è temprato, e non è completo, e non dura.

Dopo un po’, Sparviero ritornò accanto a lui attraverso la verde ombra della piantagione. Nessuno dei due parlò; procedettero a fianco a fianco. Era già molto caldo; la pioggia della notte precedente si era prosciugata, e la polvere si sollevava dalla strada sotto i loro passi. Prima, quel giorno era parso squallido e insulso ad Arren, quasi fosse contagiato dai suoi sogni: ma adesso trovava piacere nel morso della luce del sole e nel sollievo dell’ombra, e si compiaceva di camminare senza chiedersi quale fosse la loro destinazione.

E fu bene che fosse così, perché non conclusero nulla. Il pomeriggio venne impiegato a discorrere con gli uomini che lavoravano nelle cave delle argille colorate, e a mercanteggiare l’acquisto di pezzetti di quella che veniva presentata come pietra emmel. Mentre tornavano lentamente verso Sosara, col sole del tardo pomeriggio che batteva loro sulla testa e sul collo, Sparviero osservò: — È malachite azzurra: ma credo che neppure a Sosara capiranno la differenza.

— Sono molto strani, qui — disse Arren. — È sempre così con tutto: non conoscono la differenza. Come ciò che uno di loro ha detto al sindaco, ieri sera: «Non sapresti riconoscere il vero azzurro dal fango blu…». Si lagnano dei tempi grami, ma non sanno quando hanno avuto inizio; non conoscono neppure la differenza fra un artigiano e un incantatore, tra i manufatti e la magia. È come se non avessero in mente una netta distinzione tra le linee e i colori e le cose. Per loro, è tutto uguale: è tutto grigio.

— Sì — disse il mago, pensieroso. Continuò a camminare per un po’, con la testa aggobbita tra le spalle, come un falco; sebbene fosse basso di statura, camminava a lunghi passi. — Cos’è che gli manca?

Arren rispose, senza esitazioni: — La gioia della vita.

— Sì — disse di nuovo Sparviero, accettando l’affermazione di Arren e considerandola per lunghi istanti. — Sono lieto — disse alla fine, — che tu sappia pensare per me, ragazzo… Mi sento stanco e intontito. Ho il cuore stretto fin da stamattina, quando abbiamo parlato con la donna che era Akaren. Non mi piacciono gli sprechi e la distruzione. Non voglio un nemico. Se devo avere un nemico, non voglio cercarlo e trovarlo e incontrarlo… Se si deve andare in cerca di qualcosa, il premio dev’essere un tesoro, non qualcosa di detestabile.

— Un nemico, mio signore? — chiese Arren.

Sparviero annuì.

— Quando quella donna ha parlato del Grande Uomo, del Re delle Ombre…?

Sparviero annuì di nuovo. — Credo di sì — disse. — Credo che dovremo trovare non soltanto un luogo ma una persona. Ciò che avviene su quest’isola è malefico, malefico: questa perdita dell’arte e dell’orgoglio, questa assenza di gioia, questo spreco. È l’opera di una volontà maligna. Ma è una volontà che neppure si cura di tutto questo, che non si accorge neppure di Akaren o di Lorbanery. La pista che cerchiamo è una pista di devastazione, come se seguissimo un carro sfuggito al controllo, giù lungo il declivio di una montagna, e lo vedessimo dare l’avvio a una valanga.

— Lei… Akaren… potrebbe dirti qualcosa di più di questo nemico… chi è e dov’è, o che cosa è?

— Adesso no, ragazzo — rispose il mago, con voce sommessa ma piuttosto amara. — Senza dubbio avrebbe potuto farlo. Nella sua demenza c’era ancora un po’ di magia. Anzi, la sua demenza era la sua magia. Ma non potevo costringerla a rispondermi. Soffriva troppo.

E proseguì, con la testa aggobbita tra le spalle, come se lui stesso soffrisse e desiderasse evitare quel dolore.

Arren si voltò udendo uno scalpiccio di piedi sulla strada, dietro di loro. C’era un uomo che li stava rincorrendo: era molto lontano, ma guadagnava rapidamente terreno. La polvere della strada e i lunghi capelli ispidi formavano aureole rosse intorno a lui, nella luce del tramonto, e la sua lunga ombra spiccava balzi fantastici lungo i tronchi e i filari delle piantagioni che fiancheggiavano la strada. — Ascoltate! — gridò. — Fermatevi! Ho trovato! Ho trovato!

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