Ursula Le Guin - La spiaggia più lontana

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La pace che sembrava tornata nel mondo fatato di Earthsea dopo la riconquista da parte di Ged della metà mancante dell’anello magico di Erreth-Akbe nei labirinti oscuri delle tombe di Atuan, è di nuovo in pericolo: Arren, il giovane principe di Enlad, la più antica casata di Earthsea, viene personalmente all’isola di Roke per avvertire l’Arcimago Ged, ormai maturo e famoso in tutto il mondo, che la magia va scomparendo in tutte le terre del Nord. Nessuno sa il perché, ma gli antichi incantesimi non funzionano più ed i maghi vanno perdendo la conoscenza della “lingua antica” che era alla base della loro forza.
Così, per scoprire da dove provenga questa minaccia che allarga con tanta rapidità la sua sfera d’influenza, Ged ed Arren, l’uomo saggio ed il fanciullo inesperto, partono per un viaggio che sarà una vera e propria odissea: un lungo vagabondare attraverso le isolette e le genti di Earthsea che li porterà ad affrontare pericoli di tutti i generi (briganti, mercanti di schiavi, traversate avventurose in mari burrascosi), fino a giungere all’ultima spiaggia, a Selidor, l’isola all’estremità del mondo, dove risiedono i draghi, ed ancora più oltre, in un luogo desolato da cui nessuno fa mai ritorno.
La spiaggia più lontana conclude il ciclo di Ged, un ciclo di rara bellezza letteraria e di grande coerenza interna, che accoppia ad una poetica narrazione di eroiche gesta, un’allegorica riflessione sull’equilibrio cosmico e sull’essenza della vita.

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Per tutto quel giorno costeggiarono Lorbanery, bassa e verdeggiante sulla loro destra. Un vento leggero spirava dalla terra e gonfiava la vela. Verso sera doppiarono l’ultimo capo, e la brezza cadde. Sparviero chiamò nella vela il vento magico: come un falcone lanciato dal polso del cacciatore, la Vistacuta balzò e volò rapida, lasciandosi indietro l’isola della Seta.

Sopli il Tintore era rimasto per tutto il giorno rannicchiato al suo posto: evidentemente aveva paura della barca e del mare, soffriva il mal di mare ed era intristito e preoccupato. Adesso parlò, con voce rauca: — Stiamo andando verso occidente?

Aveva il tramonto proprio in faccia; ma Sparviero, paziente anche di fronte alle sue domande più stupide, annuì.

— A Obehol?

— Obehol è a ovest di Lorbanery.

— Molto più a ovest. Forse il posto è là.

— Com’è, quel posto?

— Come posso saperlo? Come potevo vederlo? Non è a Lorbanery? L’ho cercato per anni, quattro anni, cinque anni, nel buio, la notte, chiudendo gli occhi, e sempre lui chiamava «Vieni, vieni», ma io non potevo andare. Io non sono un signore dei maghi, capace di riconoscere le vie nell’oscurità. Ma c’è un luogo dove si può giungere nella luce, sotto il sole. È questo che mia madre e Mildi non volevano capire. Continuavano a guardare nell’oscurità. Poi il vecchio Mildi è morto, e mia madre ha perso il senno. Ha dimenticato gli incantesimi che usavamo per tingere, e questo ha menomato la sua mente. Voleva morire, ma io le ho detto di attendere. Di attendere fino a quando io avessi trovato quel posto. Deve esserci. Se i morti possono tornare alla vita nel mondo, dev’esserci nel mondo un posto dove succede.

— I morti ritornano alla vita?

— Credevo che tu le sapessi, queste cose — disse Sopli, dopo una pausa, guardando Sparviero di sottecchi.

— Cerco di saperle.

Sopli non replicò. Il mago lo guardò all’improvviso con uno sguardo diretto ed energico, sebbene il suo tono fosse gentile. — Stai cercando una via per vivere in eterno?

Sopli ricambiò lo sguardo per un momento; poi nascose tra le braccia l’irsuta testa bruno-rossiccia, intrecciando le mani sulle caviglie, e si dondolò avanti e indietro. Sembrava che assumesse quella posizione quando era Impaurito; e quando l’assumeva, allora non parlava, non mostrava di accorgersi di ciò che gli veniva detto. Arren gli voltò le spalle, disgustato e disperato. Come avrebbero potuto resistere insieme a Sopli, per giorni e settimane, a bordo di una nave lunga sei braccia? Era come condividere un corpo con un’anima malata…

Sparviero raggiunse Arren a prua e appoggiò un ginocchio sulla fiancata, guardando nella sera olivastra. Disse: — Quell’uomo ha uno spirito gentile.

Arren non rispose. Chiese invece, freddamente: — Cos’è Obehol? È un nome che non ho mai sentito.

— Conosco il nome e la sua ubicazione sulle carte, nient’altro… Guarda là: le compagne di Gobardon!

La grande stella color topazio era più alta, adesso; e sotto di lei, appena al di sopra del mare scuro, brillavano una stella bianca a sinistra e una biancazzurra a destra, formando un triangolo.

— Hanno nomi?

— Il Maestro dei Nomi non li conosceva. Forse gli uomini di Obehol e di Wellogy hanno dato loro un nome. Non so. Ci addentriamo in mari sconosciuti, Arren, sotto il Segno della Fine.

Il ragazzo non replicò, guardando con una specie di ripugnanza le fulgide stelle senza nome sopra le acque infinite.

Mentre navigavano verso occidente, un giorno dopo l’altro, il tepore della primavera meridionale si stendeva sulle acque, e il cielo era sereno. Tuttavia, ad Arren sembrava che la luce fosse offuscata, come se scendesse obliqua attraverso un vetro. Il mare era tiepido, quando s’immergeva per nuotare, e gli dava scarso ristoro. I viveri salati non avevano sapore. Non c’era nulla di fresco e di vivido tranne la notte, quando le stelle ardevano con uno splendore più intenso di quanto lui avesse mai visto. Si sdraiava e le guardava fino a quando si addormentava. E quando dormiva, sognava: era sempre il sogno della brughiera o del baratro o di una valle circondata da strapiombi o di una lunga strada che scendeva sotto un cielo basso; e sempre la luce fioca e l’orrore che l’invadeva, e l’inutile tentativo di fuggire.

Non ne parlava a Sparviero, mai. Non parlava di nulla che fosse importante per lui, ma solo dei piccoli incidenti quotidiani della navigazione; e Sparviero, al quale era sempre stato difficile strappare qualche parola, adesso taceva abitualmente.

Arren si rendeva conto, adesso, di essere stato sciocco ad affidarsi corpo e anima a quell’uomo inquieto e misterioso, che si lasciava guidare dall’impulso e non cercava di tenere in pugno la propria vita e neppure di salvarla. Perché adesso sembrava impazzito; era così, pensava Arren, perché non osava affrontare il suo fallimento… il fallimento della magia quale grande potere al cospetto degli uomini.

Ormai era evidente che, per quanti conoscevano i segreti, non c’erano molti segreti nell’arte magica da cui Sparviero e tutte le generazioni d’incantatori e di maghi avevano acquisito tanta fama e tanta potenza. Non era molto di più dell’uso del vento e delle intemperie, la conoscenza delle erbe medicamentose, e un abile sfoggio di illusioni come nebbie e luci e metamorfosi, che potevano incutere soggezione agli ignoranti ma che erano soltanto trucchi. La realtà restava immutata. Non c’era nulla, nella magia, che assicurasse a un uomo un vero potere sugli altri uomini; ed era inutile contro la morte. I maghi non vivevano più a lungo degli uomini comuni. Tutte le loro parole segrete non potevano procrastinare neppure di un’ora la venuta della loro morte.

Neanche nelle piccole cose valeva la pena di far conto sulla magia. Sparviero era sempre avaro delle sue arti: viaggiavano spinti dal vento del mondo quand’era possibile, pescavano per procurarsi da mangiare, e razionavano l’acqua come tutti i marinai. Dopo quattro giorni di bordeggi interminabili in un vento contrario che arrivava a raffiche convulse, Arren gli domandò se non poteva chiamare un vento favorevole nella vela; e quando il mago scosse la testa, lui disse: — Perché no?

— Non chiederei mai a un uomo malato di partecipare a una gara di corsa — rispose Sparviero, — né aggiungerei una pietra a un dorso già troppo carico. — Era impossibile capire se parlava di se stesso o del mondo in generale. Le sue risposte erano sempre burbere, e difficili da comprendere. Quello, pensò Arren, era il vero cuore della magia: alludere a significati grandiosi mentre non si diceva nulla, e far sì che l’inazione apparisse come il supremo coronamento della saggezza.

Arren si era sforzato d’ignorare Sopli, ma era impossibile: comunque, ben presto si trovò legato al pazzo da una specie di alleanza. Sopli non era pazzo, o almeno non così semplicemente come lo facevano sembrare quei suoi capelli scarmigliati e il suo eloquio frammentario. In verità, l’aspetto più folle del suo carattere era forse il terrore che provava per l’acqua. Per salire su una barca aveva dovuto attingere a un coraggio disperato, e non era mai riuscito a smussare la paura: teneva la testa bassa per non dover vedere l’acqua che si gonfiava e lambiva intorno a lui. Stare in piedi gli dava le vertigini: si aggrappava all’albero. La prima volta che Arren decise di nuotare un po’ e si tuffò dalla prua, Sopli lanciò grida d’orrore; quando il ragazzo risalì a bordo, il poveraccio era verde. — Credevo che volessi annegarti — disse, e Arren dovette ridere.

Quel pomeriggio, mentre Sparviero stava seduto a meditare e sembrava che non vedesse nulla e non si curasse di nulla, Sopli si trascinò cautamente verso Arren. Chiese, a voce bassa: — Tu non vuoi morire, vero?

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