Ursula Le Guin - La spiaggia più lontana

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La pace che sembrava tornata nel mondo fatato di Earthsea dopo la riconquista da parte di Ged della metà mancante dell’anello magico di Erreth-Akbe nei labirinti oscuri delle tombe di Atuan, è di nuovo in pericolo: Arren, il giovane principe di Enlad, la più antica casata di Earthsea, viene personalmente all’isola di Roke per avvertire l’Arcimago Ged, ormai maturo e famoso in tutto il mondo, che la magia va scomparendo in tutte le terre del Nord. Nessuno sa il perché, ma gli antichi incantesimi non funzionano più ed i maghi vanno perdendo la conoscenza della “lingua antica” che era alla base della loro forza.
Così, per scoprire da dove provenga questa minaccia che allarga con tanta rapidità la sua sfera d’influenza, Ged ed Arren, l’uomo saggio ed il fanciullo inesperto, partono per un viaggio che sarà una vera e propria odissea: un lungo vagabondare attraverso le isolette e le genti di Earthsea che li porterà ad affrontare pericoli di tutti i generi (briganti, mercanti di schiavi, traversate avventurose in mari burrascosi), fino a giungere all’ultima spiaggia, a Selidor, l’isola all’estremità del mondo, dove risiedono i draghi, ed ancora più oltre, in un luogo desolato da cui nessuno fa mai ritorno.
La spiaggia più lontana conclude il ciclo di Ged, un ciclo di rara bellezza letteraria e di grande coerenza interna, che accoppia ad una poetica narrazione di eroiche gesta, un’allegorica riflessione sull’equilibrio cosmico e sull’essenza della vita.

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Il liuto trillò un poco: Arren aveva imparato a conoscerlo. — Questa potrebbe essere nuova, qui — disse. Poi cantò.

Per il bianco stretto di Soléa

e i rossi rami piegati

che protendono i loro fiori

sulla sua testa china, appesantita

dall’angoscia per l’amante perduto,

per il ramo rosso e il ramo bianco

e la pena incessante,

io giuro, Serriadh,

figlio di mia madre e di Morred,

di ricordare il torto subito,

per sempre, per sempre.

Tutti tacevano, immobili: i volti amareggiati e quelli stizziti, le mani affaticate e i corpi. Sedevano in silenzio nel caldo crepuscolo piovoso del sud, e ascoltavano quel canto, come il grido del cigno grigio dei mari freddi di Éa, doloroso e disperato. Per un poco, dopo la fine del canto, continuarono a tacere.

— È una strana musica — disse uno, in tono incerto.

Un altro, sicuro che l’isola di Lorbanery fosse il centro assoluto del tempo e dello spazio, osservò: — La musica forestiera è sempre strana e tetra.

— Fateci sentire la vostra — propose Sparviero. — Mi piacerebbe udire qualcosa di gaio. Il ragazzo vuole sempre cantare gli antichi eroi morti.

— Lo farò io — disse l’ultimo che aveva parlato; indugiò un poco, e cominciò a cantare di un robusto e fidato barile di vino e ehi, oh, andiamocene in giro! Ma nessuno gli fece eco nel coro, e l’uomo stonò su «ehi, oh».

— Non si canta più come si deve — disse, irritato. — È colpa dei giovani, che cambiano sempre il modo di fare le cose e non imparano le vecchie canzoni.

— Non è questo — replicò l’uomo magro. — Non c’è più niente che vada bene. Più niente.

— Sì, sì, è vero — piagnucolò il più vecchio. — La buona fortuna è finita. Ecco. La buona fortuna è finita.

Poi non ci fu molto altro da dire. Gli abitanti del villaggio se ne andarono, a due o tre insieme, e Sparviero rimase solo davanti alla finestra, e Arren nella nicchia. E poi Sparviero rise. Ma non era una risata gaia.

La timidissima moglie del locandiere venne a preparare i letti sul pavimento e uscì, e i due si sdraiarono per dormire. Ma le alte travi della stanza erano dimora dei pipistrelli. Per tutta la notte, entrarono e uscirono dalla finestra senza vetri, stridendo con voci acutissime. Solo all’alba ritornarono tutti e si misero tranquilli: ognuno si compose in un minuscolo e ordinato involto grigio, appeso capovolto a una trave.

Forse fu l’inquietudine dei pipistrelli a turbare il sonno di Arren. Erano passate molte notti da quando aveva dormito a terra per l’ultima volta: il suo corpo non era più abituato all’immobilità della terraferma, e mentre si addormentava gli diceva che dondolava, dondolava… e allora il mondo veniva meno sotto di lui, e si svegliava con un grande sussulto. Quando finalmente si addormentò, sognò di essere incatenato nella stiva della nave dei mercanti di schiavi; altri erano incatenati insieme a lui, ma erano tutti morti. Si destò più volte da quel sogno dibattendosi e lottando per liberarsene; ma quando si riassopiva tornava a immergervisi. Alla fine gli parve di essere solo sulla nave ma ancora incatenato, e di non potersi muovere. Poi una strana voce lenta gli parlò all’orecchio. — Sciogli le tue catene — disse. — Sciogli le tue catene. — Allora tentò di muoversi, e si mosse: si alzò. Adesso era in un’immensa brughiera semibuia, sotto un cielo pesante. C’era orrore nella terra e nell’aria densa: un’enormità di orrore. Quel luogo era la paura, la paura stessa; e lui era lì, e non c’erano sentieri. Doveva trovare la via, ma non c’erano sentieri, e lui era piccolo come un bambino, come una formica, e quel luogo era immenso, infinito. Cercò di camminare, incespicò e si svegliò.

La paura era dentro di lui, adesso che era desto: non era più lui a essere dentro la paura. Tuttavia questa era ugualmente enorme e sconfinata. Si sentiva soffocato dalla nera oscurità della camera, cercò le stelle nell’indistinto riquadro della finestra, ma sebbene la pioggia fosse cessata le stelle non c’erano. Rimase a giacere, sveglio, impaurito, e i pipistrelli entravano e uscivano a volo con le silenziose ali coriacee. Talvolta sentiva le loro strida acutissime, al limite dell’udibilità.

Il mattino spuntò luminoso; e si alzarono di buon’ora. Sparviero cominciò a cercare con impegno le pietre emmel. Sebbene nessuno, tra gli abitanti del villaggio, sapesse cos’era la pietra emmel, tutti avevano teorie in proposito, e litigavano; e lui ascoltava, anche se in realtà cercava ben altre notizie che quelle sulla pietra emmel. Alla fine lui e Arren si avviarono per la strada indicata dal sindaco, verso le cave dove veniva estratta la terra azzurra per le tinture. Ma lungo il percorso, Sparviero deviò.

— La casa dev’essere quella — annunciò. — Hanno detto che quella famiglia di tintori e di maghi screditati vive su questa strada.

— Servirà a qualcosa, parlare con loro? — chiese Arren, che ricordava fin troppo bene Lepre.

— Questa malasorte ha un centro — disse il mago, in tono aspro. — C’è un luogo dove la fortuna si esaurisce. Ho bisogno di una guida per giungervi! — E proseguì, e Arren dovette seguirlo.

La casa stava in disparte, tra le sue piantagioni; era un bell’edificio di pietra, ma appariva trascurata da molto tempo, come tutte le piantagioni circostanti. I bozzoli non raccolti dei bachi da seta pendevano scoloriti tra i rami sfrangiati, e il terreno era coperto da uno strato di bachi e di farfalle morti, sottili come carta. Tutt’intorno alla casa, sotto i fitti alberi, aleggiava un odore di putredine, e quando si avvicinarono Arren ricordò all’improvviso l’orrore che l’aveva assalito nella notte.

Prima che giungessero alla porta, quella si spalancò. Ne uscì a precipizio una donna dai capelli grigi che roteava gli occhi arrossati e gridava: — Via, maledetti, ladri, calunniatori, idioti, bugiardi, sciocchi bastardi! Andate via, via! La malasorte vi accompagni per sempre!

Sparviero si fermò, con aria piuttosto sorpresa, e poi levò in fretta la mano in uno strano gesto. Pronunciò una sola parola: — Indietro!

La donna smise di gridare. Lo fissò.

— Perché l’hai fatto?

— Per allontanare la tua maledizione.

La donna lo guardò ancora per qualche istante e poi disse, con voce rauca: — Forestieri?

— Del nord.

La donna si fece avanti. In un primo momento, Arren aveva provato l’impulso di ridere di quella vecchia che urlava sulla soglia della sua casa; ma adesso che le era vicino provava soltanto un senso di vergogna. Era sporca e malvestita, e il suo alito era fetido, e nei suoi occhi c’era una terribile espressione di sofferenza.

— Non ho il potere di maledire — mormorò. — Nessun potere. — Imitò il gesto di Sparviero. — Lo fanno ancora, nel luogo da dove venite?

Il mago annuì. La scrutò con fermezza, e lei ricambiò lo sguardo. Dopo un poco, il volto della donna incominciò a cambiare espressione. Chiese: — Dov’è il tuo bastone?

— Non lo mostrerò qui, sorella.

— No, non devi farlo. Ti terrà lontano dalla vita. Come il mio potere: mi teneva lontana dalla vita. Quindi l’ho perso. Ho perso tutte le cose che conoscevo, tutte le parole e tutti i nomi. Uscivano in fili sottili come ragnatele, dai miei occhi e dalla mia bocca. C’è una breccia nel mondo, e ne esce la luce. E le parole se ne vanno insieme alla luce. Lo sapevi? Mio figlio sta cercando tutto il giorno al buio, con lo sguardo fisso, cercando la breccia nel mondo. Dice che vedrebbe meglio se fosse cieco. Ha perso la sua abilità di tintore. Noi eravamo i Tintori di Lorbanery. Guarda! — Agitò davanti a loro le braccia magre e muscolose, macchiate fino alla spalla da una mistura striata e sbiadita di tinture indelebili. — Non si stacca mai dalla pelle — disse. — Ma la mente si ripulisce. Non trattiene i colori. Chi siete?

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