Ursula Le Guin - La spiaggia più lontana

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La pace che sembrava tornata nel mondo fatato di Earthsea dopo la riconquista da parte di Ged della metà mancante dell’anello magico di Erreth-Akbe nei labirinti oscuri delle tombe di Atuan, è di nuovo in pericolo: Arren, il giovane principe di Enlad, la più antica casata di Earthsea, viene personalmente all’isola di Roke per avvertire l’Arcimago Ged, ormai maturo e famoso in tutto il mondo, che la magia va scomparendo in tutte le terre del Nord. Nessuno sa il perché, ma gli antichi incantesimi non funzionano più ed i maghi vanno perdendo la conoscenza della “lingua antica” che era alla base della loro forza.
Così, per scoprire da dove provenga questa minaccia che allarga con tanta rapidità la sua sfera d’influenza, Ged ed Arren, l’uomo saggio ed il fanciullo inesperto, partono per un viaggio che sarà una vera e propria odissea: un lungo vagabondare attraverso le isolette e le genti di Earthsea che li porterà ad affrontare pericoli di tutti i generi (briganti, mercanti di schiavi, traversate avventurose in mari burrascosi), fino a giungere all’ultima spiaggia, a Selidor, l’isola all’estremità del mondo, dove risiedono i draghi, ed ancora più oltre, in un luogo desolato da cui nessuno fa mai ritorno.
La spiaggia più lontana conclude il ciclo di Ged, un ciclo di rara bellezza letteraria e di grande coerenza interna, che accoppia ad una poetica narrazione di eroiche gesta, un’allegorica riflessione sull’equilibrio cosmico e sull’essenza della vita.

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— E dopo cos’ha fatto, quando siete ritornati?

— Si umiliò, e giurò di non usare mai più la Tradizione di Paln; mi baciò la mano, e mi avrebbe ucciso, se avesse osato farlo. Lasciò Havnor e se ne andò in occidente, forse a Paln: anni dopo venni a sapere che era morto. Aveva già i capelli canuti quando lo conobbi, sebbene avesse le braccia lunghe e fosse agile come un lottatore. Che cosa mi ha indotto a parlare di lui? Non riesco neppure a rammentare il suo nome.

— Il suo vero nome?

— No! Quello lo ricordo… — Sparviero s’interruppe, e per lo spazio di tre battiti di cuore restò immobile, in silenzio.

— Lo chiamavano Pannocchia, a Havnor — disse con voce mutata, guardinga. Si era fatto troppo buio perché fosse possibile scorgere la sua espressione. Arren lo vide voltarsi a scrutare la stella gialla, che adesso era più alta sulle onde e gettava sull’acqua una scia spezzata d’oro, sottile come un filo di ragno. Dopo un lungo silenzio disse: — Non è solo nei sogni, capisci, che ci troviamo di fronte a ciò che deve ancora essere in ciò che è dimenticato da molto tempo, e diciamo cose che sembrano assurde perché non ne comprendiamo il significato.

LORBANERY

Vista attraverso dieci miglia d’acqua illuminata dal sole, Lorbanery era verde, verde come il muschio brillante sull’orlo di una fontana. Da vicino si frammentava in fronde, e tronchi d’albero e ombre e strade e case, e volti e indumenti di esseri umani, e polvere, e tutto ciò che compone un’isola abitata dagli uomini. Eppure, nel complesso, era ancora verde: perché ogni acro che non era coperto da case o da strade era lasciato ai bassi e tondeggianti alberi di hurbah, delle cui foglie si nutrono i piccoli bachi che filano la seta, tessuta poi dagli uomini e dalle donne e dai bambini di Lorbanery. Al crepuscolo, l’aria si riempie di piccoli pipistrelli grigi che si nutrono di quei bachi. Ne divorano molti, ma i tessitori di seta li lasciano fare e non li uccidono, e anzi considerano di malaugurio l’uccisione dei pipistrelli dalle ali grige. Perché, dicono, se gli esseri umani vivono dei bachi, anche le piccole nottole hanno il diritto di farlo.

Le case erano strane, con le finestrelle situate a casaccio e i tetti di ramoscelli di hurbah, tutti verdi di muschio e di licheni. Era stata un’isola ricca, per quanto lo sono le isole dello stretto, e lo si poteva vedere tuttora nelle case ben dipinte e ben arredate, nei grandi arcolai e telai delle casette e degli opifici, e nei pontili di pietra del piccolo porto di Sosara, dove potevano attraccare parecchie grandi galee. Ma non c’erano galee, nel porto. Il colore delle case era sbiadito, non c’erano mobili nuovi, e quasi tutti gli arcolai e telai erano fermi, coperti di polvere, e c’erano ragnatele tra un pedale e l’altro, fra intelaiatura e ordito.

— Incantatori? — disse il sindaco del villaggio di Sosara, un ometto dalla faccia dura e brunita come le piante dei suoi piedi scalzi. — Non ci sono incantatori, a Lorbanery. Non ci sono mai stati.

— Chi l’avrebbe mai pensato? — esclamò Sparviero in tono d’ammirazione. Stava seduto in compagnia di otto o nove abitanti del villaggio, e beveva vino di bacche di hurbah, un’annata mediocre e dal sapore amaro. Aveva dovuto dire che si era spinto nello Stretto Meridionale in cerca di pietre emmel, ma non aveva camuffato se stesso né il suo compagno: solo, Arren aveva lasciato la sua spada nascosta a bordo della barca, come al solito; e se Sparviero aveva con sé il suo bastone, non si vedeva. Gli abitanti del villaggio, all’inizio, si erano mostrati cupi e ostili, ed erano pronti a ridiventare ostili e cupi da un momento all’altro: solo l’abilità e l’autorità di Sparviero li aveva costretti ad accettarli, sia pure di malavoglia. — Dovete avere uomini meravigliosamente esperti nella cura degli alberi — disse. — Cosa fanno, quando una gelata in ritardo colpisce le piantagioni?

— Niente — rispose un uomo scarno, in fondo alla fila. Erano seduti così, tutti in fila, con la schiena appoggiata al muro della locanda, sotto la sporgenza del tetto di fronde. A poca distanza dai loro piedi scalzi, le grandi e dolci gocce della pioggia d’aprile battevano sul terreno.

— Il pericolo è la pioggia, non il gelo — disse il sindaco. — Fa marcire i bozzoli. Nessuno può impedire alla pioggia di cadere. Nessuno c’è mai riuscito. — Era bellicoso, quando sentiva parlare di maghi e di magia; alcuni degli altri sembravano più immalinconiti. — Un tempo non pioveva mai, in questa stagione — aggiunse un altro. — Quando era ancora vivo il vecchio.

— Chi? Il vecchio Mildi? Be’, non è più vivo. È morto — osservò il sindaco.

— Lo chiamavano Piantatore — disse l’uomo magro. — Sì. Lo chiamavano Piantatore — confermò un altro. Scese un silenzio, come la pioggia.

Arren sedeva nella nicchia della finestra della locanda, che aveva un’unica stanza. Aveva trovato un vecchio liuto appeso a una parete, un liuto allungato, a tre corde, come si usano nell’isola della Seta, e adesso lo suonava, imparando a trarne una musica, non molto più forte del ritmo della pioggia sul tetto di fronde.

— Nei mercati di Città Hort — disse Sparviero, — ho visto vendere stoffe presentate come seta di Lorbanery. Alcune erano seta: ma nessuna era vera seta di Lorbanery.

— Le stagioni vanno male — commentò l’uomo magro. — Da quattro o cinque anni, ormai.

— Sono cinque anni, dalla Vigilia dell’Aratura — precisò un vecchio, in tono borbottante, soddisfatto di sé, — da quando è morto il vecchio Mildi; sì, è morto, e non aveva neppure l’età che io ho adesso. È morto alla Vigilia dell’Aratura.

— La scarsità ha fatto alzare i prezzi — disse il sindaco. — Per una pezza di seta semifina tinta d’azzurro, adesso incassiamo quello che una volta si otteneva per tre pezze.

— Quando ci riusciamo. Dove sono le navi? E l’azzurro è falso — ribatté l’uomo magro, provocando così una discussione di mezz’ora sulla qualità delle tinture che venivano usate nei grandi opifici.

— Chi prepara le tinture? — chiese Sparviero, e si scatenò un’altra polemica. Risultò così che i procedimenti della tintura erano stati affidati alla supervisione di una famiglia che, per la verità, affermava di avere poteri magici; ma se quelli erano mai stati davvero maghi avevano perso la loro arte, e nessun altro l’aveva più scoperta, come osservò in tono acido l’uomo magro. Perché tutti, tranne il sindaco, erano d’accordo nel riconoscere che le famose tinte azzurre di Lorbanery e l’impareggiabile cremisi, il «fuoco di drago» portato molto tempo prima dalle regine di Havnor, adesso non erano più quelli di un tempo. Avevano perso qualcosa. La colpa era delle piogge intempestive, o delle terre delle tinte, o dei raffinatori. — Oppure degli occhi degli uomini — disse l’uomo magro, — che non saprebbero distinguere il vero azzurro dal fango blu. — E lanciò un’occhiataccia al sindaco. Il sindaco non raccolse la frecciata, e tutti ripiombarono nel loro mutismo.

Il vino fiacco sembrava inacidire il loro umore: avevano tutti la faccia cupa. Adesso non c’erano altri suoni che il fruscio della pioggia sulle innumerevoli foglie dei frutteti della valle, e il mormorio del mare giù in fondo alla strada, e il sussurro del liuto nell’oscurità della locanda.

— Sa cantare, quel tuo ragazzo dall’aria di fanciulla? — domandò il sindaco.

— Sì, sa cantare. Arren! Cantaci qualcosa, ragazzo.

— Non riesco a far suonare a questo liuto qualcosa che non sia in tono minore — disse Arren dalla finestra, sorridendo. — Vuole piangere. Cosa gradireste ascoltare, miei anfitrioni?

— Qualcosa di nuovo — borbottò il sindaco.

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