— È meraviglioso, mio signore — disse Arren. — Non avevo mai sentito parlare di un popolo come il tuo. La mia patria è molto lontana da qui. Eppure anche là, sull’isola di Enlad, danziamo la Lunga Danza alla vigilia del Solstizio d’Estate.
— Voi battete i piedi sulla terra per renderla sicura — disse in tono asciutto il capo. — Noi danziamo sul mare profondo.
Dopo qualche istante chiese: — Come si chiama, il tuo signore?
— Sparviero — rispose Arren. Il capo ripeté quelle sillabe, ma era evidente che per lui non avevano significato. E questo, più di ogni altra cosa, fece comprendere ad Arren che la sua storia era vera, che costoro vivevano sempre sul mare, sul mare aperto al di là di ogni terra e dell’odore della terra, al di là del volo degli uccelli terricoli, al di fuori della conoscenza dell’uomo.
— C’era morte, in lui — disse il capo. — Deve dormire. Tu ritorna alla zattera di Astro; ti manderò a chiamare. — Si alzò. Sebbene fosse perfettamente sicuro di sé, era chiaro che non sapeva bene cosa fosse Arren: non sapeva se doveva trattarlo come un suo pari o come un ragazzo. In quella situazione Arren preferiva essere trattato da ragazzo, e accettò il congedo: ma poi si trovò alle prese con un problema. Le zattere si erano allontanate di nuovo, e cento braccia di acqua serica le separavano.
Il capo dei Figli del Mare Aperto gli parlò di nuovo, laconicamente: — A nuoto — disse.
Arren si calò impacciato nell’acqua. La frescura era piacevole, sulla sua pelle bruciata dal sole. Compì la traversata a nuoto e si issò sull’altra zattera: trovò un gruppo di cinque o sei bambini e giovani che l’osservavano con evidente interesse. Una bambinetta disse: — Tu nuoti come un pesce preso all’amo.
— Come dovrei nuotare? — chiese Arren, un po’ mortificato ma in tono cortese: in verità, non avrebbe mai saputo mostrarsi sgarbato verso un essere umano così piccolo. La bimba sembrava una statuina di mogano lucido, fragile e squisita. — Così! — esclamò lei, e si tuffò come una foca nel bagliore e nell’ondeggiare liquido delle acque. Solo dopo molto tempo, e da una distanza inverosimile, Arren udì il suo grido acuto, e vide la testolina nera e lucida affiorare alla superficie.
— Vieni — disse un ragazzo che aveva probabilmente la stessa età di Arren, sebbene non dimostrasse più di dodici anni: aveva l’aria seria, e un tatuaggio — un granchio azzurro — gli copriva il dorso. Si tuffò, e tutti si tuffarono, perfino un bimbetto di tre anni; perciò anche Arren dovette tuffarsi, cercando di non sollevare troppi spruzzi.
— Come un’anguilla — disse il ragazzo, riemergendo accanto alla sua spalla.
— Come un delfino — disse una graziosa fanciulla dal sorriso garbato, e sparì nelle profondità dell’acqua.
— Come me! — strillò il bimbetto di tre anni, ballonzolando sull’acqua come una bottiglia.
E così quella sera, fino a quando venne buio, e per tutto il lungo giorno dorato che seguì, e nei giorni successivi, Arren nuotò e parlò e lavorò con i giovani della zattera di Astro. E tra tutti gli eventi del viaggio, da quel mattino dell’equinozio in cui lui e Sparviero avevano lasciato Roke, quello gli sembrava il più strano, in un certo senso: perché non aveva nulla in comune con tutto ciò che era accaduto prima, nel viaggio o in tutta la sua vita; e meno ancora aveva un nesso con quanto doveva ancora venire. La notte, quando si sdraiava per dormire in mezzo agli altri, sotto le stelle, pensava: è come se fossi morto; e questa è una vita nell’aldilà, così, nel sole, oltre l’orlo del mondo, tra i figli e le figlie del mare…
Prima di addormentarsi guardava lontano, a sud, cercando con lo sguardo la stella gialla e la costellazione della Runa della Fine, e vedeva sempre Gobardon e il triangolo più piccolo, e quello più grande: ma adesso sorgevano più tardi, e lui non riusciva a tenere aperti gli occhi fino a quando l’intera figura emergeva libera dall’orizzonte. Di notte e di giorno le zattere andavano alla deriva verso sud, ma il mare non cambiava mai perché ciò che muta sempre è immutabile; i temporali di maggio passavano, e di notte brillavano le stelle, e tutto il giorno splendeva il sole.
Arren sapeva che la vita dei Figli del Mare Aperto non poteva essere sempre vissuta in quella serenità di sogno. Chiese dell’inverno, e gli parlarono delle lunghe piogge e delle onde possenti, delle zattere che vagavano separate e andavano alla deriva nel grigiore e nell’oscurità, per settimane e settimane. L’inverno precedente, durante una tempesta di un mese, avevano scorto onde così grandi che parevano «nuvoloni», dicevano, perché non avevano mai visto le montagne. Dal dorso di un’onda si poteva vedere quella successiva, immensa, a miglia e miglia di distanza, che si precipitava verso di loro. Le zattere potevano navigare in un mare simile?, chiese Arren, e quelli risposero che sì, potevano farlo, ma non sempre. In primavera, quando si radunavano alle Strade di Baltran, mancavano due zattere, o tre, o sei…
Si sposavano giovanissimi. Granchio Azzurro, il ragazzo che portava tatuato il simbolo del suo nome, e la ragazza graziosa, Albatros, erano marito e moglie, sebbene lui avesse appena diciassette anni e lei addirittura due di meno; c’erano molti matrimoni come il loro, tra il popolo delle zattere. Molti bimbetti camminavano carponi qua e là, legati a lunghi guinzagli fissati ai quattro pali dei ripari centrali, e tutti vi rientravano nelle ore più calde, e dormivano in mucchi frementi. I bambini grandicelli badavano ai più piccoli, e gli uomini e le donne si spartivano tutto il lavoro. Tutti facevano a turno per raccogliere le grandi alghe dalle foglie brune, i nilgu delle Strade, frangiati come felci e lunghi venti o trenta braccia. Tutti lavoravano insieme, battendo il nilgu per ricavarne stoffe o intrecciandone le fibre grezze per ricavare funi e reti; pescavano e seccavano il pesce, e fabbricavano utensili con avorio di balena, e insieme sbrigavano tutte le varie mansioni. Ma c’era sempre tempo per nuotare e chiacchierare, e non c’era mai un termine fisso per ultimare un lavoro. Le ore non esistevano: c’erano soltanto notti e giorni. Dopo pochissimo tempo, Arren ebbe l’impressione di vivere sulla zattera da un periodo incalcolabile; e che Obehol fosse un sogno, e che più indietro ci fossero sogni ancora più sbiaditi, e un altro mondo nel quale lui era vissuto sulla terraferma ed era stato un principe di Enlad.
Quando, finalmente, venne convocato alla zattera del capo, Sparviero lo scrutò per qualche istante e disse: — Mi sembri l’Arren che ho visto nel Cortile della Fontana: agile come una foca dorata. Mi sembra che ti trovi bene, qui.
— Sì, mio signore.
— Ma dov’è, «qui»? Abbiamo lasciato dietro di noi i luoghi della terra. Abbiamo navigato fino a uscire dalle mappe… Molto tempo fa ho sentito parlare del Popolo delle Zattere: ma credevo che fosse solo una delle tante leggende dello Stretto Meridionale, una fantasia inconsistente. Eppure siamo stati salvati da quella fantasia: le nostre vite sono state salvate da un mito.
Parlava sorridendo, come se partecipasse alla serenità atemporale di quella vita nella luce dell’estate; ma il suo volto era scavato, e nei suoi occhi c’era una tenebra. Arren se ne accorse, e l’affrontò.
— Ho tradito… — disse, e s’interruppe. — Ho tradito la tua fiducia in me.
— In che modo?
— Là… a Obehol. Quando, per una volta, tu hai avuto bisogno di me. Eri ferito, e avevi bisogno del mio aiuto. Io non ho fatto nulla. La barca andava alla deriva, e io la lasciavo andare. Tu soffrivi, e io non ho fatto nulla per te. Ho visto la terraferma… ho visto la terraferma, e non ho neppure tentato di far virare la barca…
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